Il contributo in termini di qualità percettiva offerto dalla presenza della vegetazione nel paesaggio naturale e antropizzato è un assioma da sempre riconosciuto nella memoria collettiva dell'umanità.
Il rapporto tra opera costruita ed elemento vegetale come strumento progettuale parte dai mitici giardini pensili di Babilonia, per passare attraverso i pergolati verdi dipinti sulle pareti di ville pompeiane, ai berceau voltati dei giardini europei del XVI e XVIII secolo, all'arte topiaria, fino alle prime utilizzazioni in campo architettonico di strutture metalliche di supporto alla vegetazione rampicante come elemento di caratterizzazione figurativa dell'opera costruita (Hector Horeau). In epoca moderna, Le Corbusier tra "I cinque punti dell'architettura" annovera il verde come materiale di progetto; Frank Lloyd Wright esplora le vie dell'architettura organica; Alvar Aalto dà vita a forme immancabilmente debitrici di suggestioni tratte dal mondo naturale, e così via fino ad oggi, attraverso le diverse esperienze progettuali di Burle Marx, Lucio Costa e Oscar Niemeyer (colonne vegetali a S. Paolo in Brasile, 1982), Geoffrey Bawa, Emilio Ambasz, Hundertwasser, James Wines (Terrarium e Hialleah Showroom, 1978), Ungers (Melkerei Houses a Landsthul, 1979).
Se la mancanza di un senso (p.e. quello della vista) è innata: così il disabile possibilmente coltiva un altro senso, che sostituisca il vicariato di quello, e esercita l’immaginazione produttiva con grande perseveranza: nel modo in cui cerca di comprendere la forma di corpo esterno attraverso il tatto e – dove questo per via della grandezza (p.e. di una casa) non è sufficiente – gli ambienti attraverso un altro senso, come quello dell’udito con l’eco della propria voce in una stanza: alla fine però, se una fortunata operazione riporta l’organo alla sua sensibilità, deve innanzitutto imparare a vedere e sentire, cioè riportare la sua percezione sotto la capacità di questo di tipo di soggetto.1
Antonia Campi (Sondrio, 1921), detta Neto come suggerisce affettuosamente l’autrice Anty Pansera, sua profonda conoscitrice sia sotto il profilo umano che professionale, è una straordinaria figura di intellettuale che attraversa da indiscussa protagonista la storia di oltre mezzo secolo del design italiano e internazionale.
È in costruzione a Casalgrande la prima opera architettonica in Italia del maestro Kengo Kuma, la “Casalgrande Ceramic Cloud”, nuova porta del distretto ceramico che l’azienda Casalgrande Padana ha scelto di donare alla collettività, partecipando alla valorizzazione del territorio attraverso il linguaggio dell’architettura contemporanea innovativa e di qualità.
Il denso testo di Elena Dellapiana, architetto e ricercatrice presso il Politecnico di Torino, è un esplicativo viaggio attraverso 150 di storia del design ceramico in Italia, esplorato con sguardo meticoloso attraverso gli scenari culturali, economici e produttivi che hanno determinato la nascita e la diffusione della tradizione “made in Italy”.
“Vengono definiti intelligenti, in inglese smart, quei materiali in grado di reagire con l’ambiente e di rispondere ai cambiamenti che in esso avvengono modificando una o più delle loro proprietà (meccaniche, ottiche, elettriche, magnetiche, chimiche o termiche)”.
Con la mostra “Ceramic Tiles of Italy Playground” organizzata da Edi. Cer. e allestita presso la Triennale di Milano dal 14 al 19 aprile scorso, Confindustria Ceramica si è presentata all’appuntamento annuale del Fuorisalone milanese 2010. La collezione di originali realizzazioni, evocando l’evento “giocare con la ceramica di Bruno Munari”, troverà un’ulteriore presenza nell’ambito del Cersaie del prossimo autunno.
Forme, colori e polisensorialità sono le qualità del prodotto ceramico che, in sintonia con il mondo dell’infanzia, hanno alimentato creativamente le diverse installazioni.
Caso emblematico è il “Diamante Magico”, proposta ideata per Casalgrande Padana da 5+1 - Agenzia Architettura, dove tridimensionalità, lucentezza, flessibilità combinatoria, inverano i concetti mutuati dal gioco infantile - come “doni froebeliani” - alla base dell’esperienza progettuale.
La storia professionale di Italo Rota fluttua all’interno del magma multiforme dell’architettura contemporanea: si sostanzia di grandi realizzazioni pubbliche, arredi urbani, ristrutturazioni e allestimenti museali, architetture private e design degli interni. Ma il fortunato esordio è negli anni ottanta, in Francia, con la sistemazione del Musée d’Orsay e il rinnovo del Centre Pompidou in collaborazione con Gae Aulenti. Quanto e come queste esperienze hanno formato il suo futuro percorso professionale?