Il numero di progetti recenti legati al vino che è possibile trovare su riviste e blog di design ha più cifre. Di sicuro due, più probabilmente tre. Il cervello di chiunque abbia avuto la possibilità di prenderne visione nell’arco di alcune giornate, necessiterà quindi di un certo lasso di tempo per riuscire a computare questa discreta quantità di dati.
Nel caso di questo articolo è stato possibile restringere il campo e produrre una serie di riflessioni, quando si è scelto di individuare tra tutti questi oggetti quelli che testimoniano un apporto concreto da parte del “design” alla fruizione del vino da parte dell’utente.
Ma è doverosa un’anticipazione: il metro di misura di questo apporto non è internazionale! Ciò che sposta coscienze e capitali su un mercato, non potrebbe che arrecare danno su un altro.
Una premessa
Per “design” si è scelto di sposare una definizione basata tanto sull’utilità sociale quanto sulla concreta commerciabilità. Saranno dunque oggetto di esempio sia quei prodotti che riescano nell’intento nobilissimo di migliorare la vita dell’utente finale tramite l’innovazione funzionale, tipologica o la tecnologia, sia quei prodotti che abbiano il potere di avvicinare al mercato del vino un maggior numero di persone.
Per “vino” si intende invece tutto ciò che riguarda il prodotto e il suo consumo, mentre non saranno argomento di riflessione i temi della produzione, del trasporto e della distribuzione per i quali sicuramente l’innovazione tecnica e gestionale può fare ancora moltissimo tanto in Italia quanto all’estero.
In Italia
Il vino, equiparato a tutti gli altri alcolici nella quasi totalità delle culture, non è tale nel nostro Paese.
Eppure la sua assunzione conserva, come accade per tutti i prodotti legati al vizio piuttosto che alla virtù, fortissimi aspetti di ritualità, retaggio di una antica necessità di giustificare le attività finalizzate al piacere.
Se poi si pensa che i sacerdoti lo bevono durante la messa, non è azzardato scomodare addirittura il termine “sacralità” per descrivere l’aura che confonde i contorni di questa bevanda nell’immaginario collettivo.
Inoltre, mentre altri tipi di rito, come ad esempio quello bellissimo della preparazione di una dose di tabacco da pipa, tendono a dividere (tra fumatori e non fumatori, amanti dell’aroma che produce la combustione e detrattori) il vino ha il potere di unire; sia nel senso che nessuno nella nostra cultura viene discriminato sulla base del suo consumo, sia nel senso che, con un ruolo decisamente attivo, il vino favorisce la convivialità grazie ai leggeri stati di alterazione derivanti da un consumo moderato.
La millenaria storia del vino porta con sé oltre alla codifica dei gesti anche quella di tutti gli oggetti che fanno parte della sua cosmologia.
E’ altissimamente improbabile che sul nostro mercato possa dunque essere proposto, ad esempio, un nuovo tipo di cavatappi di design che risponda ad uno dei due criteri precedentemente proposti. Nonostante esistano vari esempi di cavaturaccioli molto innovativi e anche molto venduti, lo strumento ideale rimane quello della tipologia a leva con doppio dente d’appoggio che usano tutti i sommelier, codificato grossomodo come lo sono gli strumenti musicali di un’orchestra, non a caso anch’essi fortemente refrattari all’intervento dei designer.
Al posto del cavatappi avrebbero indifferentemente potuto essere citati ad esempio calici, glacette, decanter, bottiglie, portabottiglie, tappi. E quanto i gli italiani siano mediamente poco proni a vedere nel progetto legato al mondo del vino la possibilità di apporti positivi alla propria esperienza di consumo lo dimostra il clima di ostilità con cui fu accolta l’introduzione del tappo sintetico in luogo di quello in sughero.
Indipendentemente dai giudizi di merito, i tappi in polietilene, lattice e silicone si sono imposti per le loro qualità di economicità e affidabilità arrivando coprire in meno di dieci anni il 17% del volume globale dei vini imbottigliati contro il 10% cui sono ormai relegati i tradizionali tappi in sughero in uso dal XVII secolo. Spinta al progresso, la portoghese Amorim, leader mondiale nella produzione di tappi in sughero ha appena introdotto un brevetto che rivoluziona l’imbottigliamento dei vini frizzanti: Helix, il tappo elicoidale che si serra a vite nel collo di una bottiglia appositamente sagomata.
Tra i più rilevanti progetti italiani dell’ultimo decennio figurano innumerevoli manufatti, legati però più all’art de la table che all’enologia; prodotti anche bellissimi e desiderabili, alcuni presenti addirittura nelle migliori antologie di design, ma quasi sempre catalogabili più propriamente sotto le categorie del dell’oggetto da tavola, quando non del gadget, che sotto quella del design con funzione sociale come precedentemente proposta.
C’è poi un altro florido filone al quale si è scelto di non attingere che è quello dei progetti dal carattere artistico o celebrativo quali ad esempio la serie Calici Caratteriali di Gumdesign che fanno proprio dell’anti-funzionalità quella che gli anglosassoni chiamano USP (unique selling proposition).
Per la facilità di realizzare tirature piccolissime o pezzi unici il vetro e il vetro al piombo sono materiali con cui si sono cimentati molti eccellenti designer. Chi avesse tempo troverà soddisfazione nell’inserire in Google chiavi di ricerca come “Matali Crasset”, “Paolo Ulian”, “Kacper Hamilton”, “Martin Jakobsen” e “Sebastian Bergne” a fianco della tag “wine”.
Calici caratteriali di Gumdesign per Vilca.
Questa manifesta inconciliabilità tra il vino e gli scopi più alti del design non va però ricondotta ad un demerito dei progettisti, ma piuttosto ad una condizione culturale comune tanto ai designer quanto ai fruitori di design.
La cultura del buon bere è certamente diffusa in maniera capillare in Italia anche se ha più le caratteristiche di una mitologia che di una scienza poiché si diffonde non con lo studio ma per una sorta di osmosi, alimentata dal retaggio storico, dal milieu fertilissimo e dal profondo rispetto che si ha per il comparto vinicolo nazionale. Ma non siamo un popolo di conoscitori a differenza di quello che sembrano pensare in molti all’estero. E chi scrive si sente assolutamente un italiano medio in questo senso: il sentimento nettissimo è che non ci sia nulla che il design possa promettere per migliorare l’esperienza del consumo del vino che non abbia il vago sapore di una truffa.
Calici caratteriali di Gumdesign per Vilca.
Gli argomenti a sostegno di questa affermazione -anche un po’ pesante- si trovano tra le corsie dei supermercati e in enoteca. Le etichettature delle bottiglie per il nostro mercato, indipendentemente dal Paese d’origine, hanno un profilo nettamente più basso rispetto a quelle proposte in mercati quali U.S.A., Australia o Cina.
Il consumatore nazionale è molto più prono a farsi sedurre dall’impronta avanguardistica conferita dagli inchiostri metallici all’etichetta dello shampoo che allunga fortifica e ripara piuttosto che da una grafica contemporanea e appariscente sulla confezione del suo Sangiovese preferito. La percezione del consumatore è sì pilotata, ma con estrema sobrietà.
Calici caratteriali di Gumdesign per Vilca.
Nel libro 99 Bottles of Wine David Schuemann racconta, con molto più dettaglio di quello che può trovare spazio in questa sede, quali criteri vengano applicati in altre parti del pianeta per condizionare la percezione del contenuto della bottiglia. Un’etichetta ben disegnata ha il potere non solo di innalzare il valore percepito del vino che contiene, ma addirittura quello di aumentarne la piacevolezza al momento dell’assaggio. Il traguardo del progettista grafico è quello di innalzare di circa 10 $ il valore percepito rispetto a quello reale.
Altrove
Negli Stati Uniti, come in quasi tutti i Paesi non appartenenti alla fascia tropicale che hanno rapporti politici e commerciali di vecchia data con le nazioni produttrici storiche, la cultura del vino è presente e generalmente in espansione. Le sue derive mitologiche arrivano però come di sponda, come se la sacralità del mondo vinicolo italo-francese venisse guardata da lontano e con occhio critico. Se sotto la sua ombra è impossibile fare un certo tipo di design, in prospettiva si può addirittura scegliere tra una pluralità di approcci.
Le foto che seguono documentano progetti divisi in maniera netta tra quelli che coltivano il mito con la finalità di elevare il consumatore e quelli che lo mettono in discussione, abbassando al livello del consumatore inesperto un prodotto cui evidentemente non si era avvicinato prima per una forma inconsapevole di timore reverenziale.
Ancora diverso è l’approccio da tenere per il designer che si trovi a progettare per mercati più nuovi quali ad esempio quello cinese. L’avvicinamento di nuovi consumatori a questo prodotto è spesso possibile grazie a quegli stessi oggetti che sul nostro mercato si è scelto in questa sede di declassare a gadget. Il neofitismo diffuso ed il grandissimo rispetto per la tradizione alloctona di questa bevanda fanno sì che risultino di conforto tutti quegli strumenti che aiutano a prevenire possibili errori nella conservazione e nella mescita. Termometri precisissimi, decanter meccanizzati, cantinette elettroniche e cavatappi che evocano per forma, dimensione e prezzo le componenti meccaniche di uno yacht o di una moto da corsa, sono strumenti concreti di avvicinamento di un nuovo pubblico e per le ragioni già citate sono da ritenersi, con un certo paradosso e solo in questo contesto, oggetti che incarnano una delle possibili funzioni alte del design.
Stack Wines (vini impilabili) è un progetto imprenditoriale basato sull’idea del package engineer californiano Matt Zimmer. Per ovviare al problema del deperimento dei vini all’interno delle bottiglie aperte il confezionamento viene risolto con delle monoporzioni a metà tra un vasetto di yogurt e un calice senza gambo. Il materiale è 100% riciclato.
Il prezzo per quattro dosi è di 12.99 $ (indifferentemente dalla scelta tra Merlot, Cabernet Sauvignon, Pinot Grigio o Chardonnay)
Con lo slogan “Yes we can” (Sì, inscatoliamo) e un doveroso disclaimer per sottolineare che non ci sono legami con partiti politici, l’operazione di Underwood è forse ancora più stupefacente del progetto imprenditoriale di Matt Zimmer: qui l’idea non viene da un package designer ma proprio dalla cantina Union Wine che produce il vino contenuto nelle lattine. Ciò che sul nostro mercato rappresenterebbe quasi certamente una perdita di credibilità è in realtà stato un prodotto richiesto dai propri clienti a quest’azienda dell’Oregon che lo aveva inizialmente proposto solo come gadget omaggio all’interno di una fiera.
Il progetto Cork Carafe del belga Quentin de Coster non è che un piccolo concept per un prodotto soffiato a bocca. Il valore è però grande se lo si considera come un progetto di communicational design. Per non dimenticare il nome del vino che si sta bevendo, dopo averlo versato dalla bottiglia in una piccola caraffa, si conserva il tappo che ne reca il nome. Il messaggio è agli antipodi da quello mandato con l’omologazione dei prezzi di Stack Wines: ciascun vino caratteristiche di unicità. (foto di Eloide Timmermans)
Un approccio didascalico: già dalla prima riga del manifesto aziendale si scopre che scopo di Uproot Wines (ancora una volta dalla Napa Valley) è educare una nuova generazione di bevitori di vino. Le etichette frontali sono unicamente costituite da un codice colore che suggerisce le note aromatiche del contenuto.
Il sistema Coravin è stato brevettato dall’omonima azienda in Massachusetts e affronta il problema della corruttibilità del vino dopo l’apertura della bottiglia in maniera tecnologica. Il liquido viene estratto perforando il tappo e senza mai entrare in contatto con l’aria. La cultura statunitense è sicuramente molto spaventata dagli eccessi del bere e il numero di prodotti mirati a un consumo che non preveda l’apertura e mescita della bottiglia intera in una sola occasione lo dimostra. Coravin offre all’intenditore (o aspirante tale) la possibilità di gustare la sua bottiglia preferita poco per volta, senza il rischio di trovarne il sapore alterato e senza mai stapparla.
Quello di Hauswein va considerato più che altro un progetto di marketing, con un intervento di disegno limitato alla livrea per la scatola. Infatti, per quanto il vino nel cartone non sia una novità, lo è la vendita di un prodotto i cui prezzi oscillano tra i 7 e i 9 euro al litro (a seconda del vino). In Italia il segmento dei vini in scatola, ad oggi, riguarda solo vini di bassa categoria con prezzi compresi tra 1 e 2 euro al litro. La possibilità di scegliere vini di fascia più alta con questo tipo di confezione è invece offerta in altri mercati quali quello tedesco appunto e quello australiano. Un consumatore maturo, attento all’ambiente e alla riduzione dei costi di imballaggio e spedizione, nonché alla possibilità di non mettere il vino in contatto con l’aria per versarlo, è disposto a spendere, ad esempio, 26 euro per tre litri di Rotwein nr. 20, un uvaggio contenente Cabernet e Dunkelfelder (prezzo per litro 8,67 euro ). Foto di Markus Hayn.
Il sistema di refrigerazione adottato dall’olandese Arian Brekveld per il suo Wine cooler prodotto da Royal Tichelaar Makkum è mutuato da quello utilizzato anticamente nel suo Paese per mantenere in temperatura il burro. Sopra la bottiglia aperta viene collocato, una volta bagnato, questo manufatto in terracotta ad elevata porosità: l’evaporazione dell’acqua causa l’estrazione forzata dell’aria con il conseguente abbassamento della temperatura della parte sottostante. Un metodo di raffreddamento a emissioni nulle.
Non è un prodotto IKEA ma la matrice è comunque scandinava, e non ci sarà da meravigliarsi se il colosso giallo/blu prenderà a prestito l’idea. Sono i bicchieri impilabili Lempi disegnati dallo svedese Matti Klenell per Iittala. La soluzione è brillante, ma per la tesi sostenuta nell’articolo anche inconciliabile con la sensibilità italiana. Questi bicchieri rispondono ai canoni del bicchiere da osteria che tradizionalmente non rientra tra le tipologie in uso presso le civili abitazioni. Allo stesso tempo è difficile che il prodotto, al costo di 23,40 euro la coppia, possa penetrare il nostro mercato attraverso le forniture per locande e trattorie giacché il costo medio dei bicchieri utilizzati in questo generi di localioscilla tra i 90 centesimi e i 2 euro.
Perfino i bicchieri Major Scale di Uncommon Goods (designer non accreditato) meritano una menzione, malgrado siano il tipo di prodotto ci si aspetterebbe di trovare nel reparto oggettistica della Feltrinelli. I bicchieri recano i livelli esatti di riempimento per ottenere ciascuna delle sette note. Si tratta quindi di un progetto di interaction design, in cui la funzione primaria non è minimamente compromessa, mentre quella secondaria, anche senza la necessità di sperimentarla, non può non strappare un sorriso e magari anche qualche riflessione sul rapporto tra noi e gli oggetti. Anche questa è utilità sociale.
"Vino e design si parlano" è stato pubblicato in Turris Babel, n. 96