Avviene che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore quanto l’assenza visibile del colore e nello stesso tempo la fusione visibile di tutti i colori.
Herman Melville, Moby Dick o la balena
Cima verde su piano metallico
La forza del colore è riuscita ad interessare e ad avvicinare campi tra i più diversi: fisica, chimica, arte, biologia, psicologia hanno affrontato l’argomento da punti differenti e riuscendo renderlo sempre più affascinante tanto che, perfino un poeta come Goethe, si è sentito attratto da questa tematica. Ciò che più ci interessa in questo contesto è il colore come materia in grado di definire le qualità di un oggetto e, in particolare, di un prodotto tessile.Accanto alle caratteristiche chimico-fisiche del colore ci appare forse ancora più importante esaminarne gli aspetti sensibili legati alle suggestioni, anche simboliche, che questo è in grado di sucitare.Con il termine tintura si intende l’attribuzione di una colorazione stabile tramite sostanze coloranti ad un oggetto. Anche nel campo tessile sia che si tratti di fibre, filati o tessuti si parla sempre di tintura.La volontà di conferire un colore diverso rispetto a quello naturale delle fibre è tanto antica che l’inizio della sua applicazione è difficilmente databile; resti di fibre tessili colorate si hanno già a partire dall’età neolitica. Con una ragionevole approssimazione nel suo L’arte della tintura nella storia dell’umanità, Franco Brunello indica, già da questo lontano periodo preistorico, l’uso dell’uva orsina per ottenere il giallo, il sambuco per l’azzurro, bietolone o spinacione per il rosso e il caglio di palude per l’arancio
Nelle miniere di salgemma di Durrnberg in Austria sono state trovate fibre tinte con il guado risalenti all’età del bronzo. Alcuni testi citano che nel ritrovamento della tomba della regina Asa sulla sponda occidentale dei fiordi di Oslo, sono stati rinvenuti, assieme agli utensili tipici per le lavorazioni tessili, anche guado e robbia, due tra le principali piante tintorie.
Radici di robbia
Filato di lana tinto con la radice di robbia
Questi elementi storici sono in grado di dimostrare, ancora una volta, che le ricerche estetica ed espressiva non hanno seguito quella funzionale ma si sono sviluppata in modo parallelo ad essa.
Colore e alchimia, fino all’illuminismo è stato un binomio inscindibile, suscitando un’ aura di mistero attorno a queste conoscenze. Ma accanto ad esso si deve considerare che il fascino di alcuni colori è stato sicuramente incrementato dalla loro preziosità e ci si riferisce, in particolare, all’indaco e ancora di più alla porpora antica. Se infatti è ben noto che sono molte le erbe tintorie in grado di cambiare il colore naturale della fibre con procedimenti anche molto semplici (ad esempio il mallo di noce tinge direttamente le fibre di lana senza bisogno di sostanze aggiuntive), è pur vero che le tonalità più frequenti ottenibile con legni ed erbe sono quelle che vanno dal giallo al bruno passando per i ruggine. Il fascino quindi che la porpora e l’indaco potevano sucitare in un mondo “artificiale” costruito con colori naturali doveva essere fortissimo. Non ultimo va ricordato il valore intrinseco soprattutto della porpora che veniva a costare più dell’oro. «Nel rosso porpora antico» scrive Manlio Brusatin «intuiamo essere rinchiuso quel segreto effetto della diffusione, nel desiderio per una merce che non ha nessuna voce quanto la “forma” del colore»1. Colore mediterraneo per eccellenza, legato al popolo fenicio e noto fino dal XV secolo a. C., la porpora, come è risaputo, viene estratta da due molluschi: il buccino e il murice. Per avere un’ottima tintura sia come intensità che come durata si doveva utilizzare tutte e due i molluschi. Ogni mollusco contiene una piccola quantità di colorante, non più di una goccia, e per produrne un grammo erano necessari ben 250.000 molluschi e questo giustifica le cataste di conchiglie ancora oggi visibili sulla sponda orientale del Mediterraneo in particolare a sud ovest di Saida in Algeria.
Conchiglie di murice
Esposto al sole e all’aria, il liquido della vescica del mollusco passa da un colore bianchiccio ad uno giallo pallido, verde-blu e infine porpora. Segno di distinzione e di prestigio nella Roma prima repubblicana e poi imperiale, come nella chiesa cattolica scompare quasi completamente nell’uso medioevale. E’ curioso che da un punto di vista chimico tra la molecola della porpora e quella derivante dell’indigofera ci sono solo due atomi di differenza. Come la porpora anche l’indaco richiede un processo di tintura complesso: va prima trattato con un agente che lo rende solubile e incolore; sotto questa forma viene chiamato bianco indaco «Si può solo cercare di indovinare che cosa diede agli antichi tintori la costanza di insistere con questa sostanza poco promettente che viene assorbita dalle fibre di lana solo nella forma incolore per poi trasformarsi però in blu intenso se esposto all’aria»2. Anche il blu come la porpora è indice di distinzione tra i Tuareg che coprono la loro testa e il volto con veli blu tinti con l’indaco.
Tuareg con abiti tinti con indaco
Parenti nella chimica distinti nei significati il rosso e il blu hanno cariche espressive e simboliche quasi antitetiche. Ricordiamo quello che scrive Itten nella sua opera Arte del colore che pur avendo un approccio per certi versi filoscientifico, si concentra anche sugli elementi espressivi riconoscendo al rosso la forza vigorosa, la passionalità sensuale attribuendogli la capacità di poter esprimere «tutti i gradi intermedi tra l’inferno e il cielo: gli è precluso solo il reame aereo ed etereo, spirituale e cristallino dove domina il blu»; blu introverso, invece, che si chiude in se stesso «che germoglia e si sviluppa di nascosto nel buio e nella quiete e anche nella sua massima luminosità tende allo scuro»3.
Colorante indaco della manifattura Gobelin di Parigi
Rocche di varie tonalità di rosso
Si presume che la prima descrizione della storia a carattere alchemico-cromatica sia da attribuire al filosofo greco Democrito che, durante i suoi viaggi in Egitto, avrebbe raccolto i segreti degli alchimisti dell’arte della tintura. Il materiale sarebbe poi stato inserito in uno dei suoi Quattro libri e successivamente rielaborato per arrivare fino a noi attraverso il Papyrus Leidentis e il Papyrus Holmiensis. Su quest’ultimo, tra le ricette tintorie presenti, si trovano decritti con precisione i processi di tintura al tino col guado. Secondo il chimico inglese Philip Ball i due papiri, invece, sono più semplicemente da ritenersi gli estratti di un ricettario artigiano probabilmente egizio del III secolo d. C4. Se per un tempo molto lungo le tecniche e le ricette di produzione dei coloranti hanno avuto un patrimonio comune per le necessità pittoriche e tintorie, le esigenze di questi due settori sono sempre stati ben distinti: per la pittura il colore è un’ingrediente per raffigurare la realtà; nella produzione del tessile un elemento per ricercare la bellezza dell’artefatto magari partendo dall’imitazione della natura5.
È dal basso medioevo che si ha una codificazione piuttosto precisa e documentata di quella che era l’arte tintoria e che la si concepisce come una professione vera e propria e sempre più lontana dalle procedure alchemiche seppure le sostanze tintorie rimangono pressoché invariate dall’antichità se si escludono due importanti sostituzioni quelle dell’indigofera col guado e la porpora col kermes e con la robbia per motivi essenzialmente economici.
Nella Firenze mediovale i tintori, che non ebbero mai un’autonoma corporazione, erano divisi in tre categorie: quelli dell’Arte Maggiore che tingevano in tutti i colori, quelli della Picciol Tinta che tingevano col la robbia in tutte le tonalità di rosso e, infine, quelli dell’arte del Guado che si dedicavano alle tinture in azzurro.
Lo stemma dell’arte dei tintori di Firenze
Tintori al lavoro, London, The British Museum Library
Scrive giustamente Franco Brunello: «A cominciare dal quattrocento la quantità dei documenti sull’arte della tintura risulta tale da costituire un certo imbarazzo per chi vuol seguire l’evoluzione dei procedimenti tecnici. Le grandi biblioteche europee possiedono centinaia di ricettari e manoscritti che sarebbe quasi impossibile esaminarne uno per uno. Dobbiamo dire però che le ricette di quest’epoca finiscono più o meno per ripetere sempre le stesse cose»6.
(fine prima parte)
NOTE
1 Manlio Brusatin, Storia dei colori, Einaudi, Torino, 1983, p. 19-20.
2 Philip Ball, Colore, Rizzoli, Milano, 2004, p. 211.
3 Johannes Itten, Arte del colore, Il Saggiatore, Milano, 1984.
4 Cfr. Philip Ball, Colore, Rizzoli, Milano, 2004, p. 68. «chiunque li abbi scritti desiderava essere compreso da persone che svolgevano la stessa attività. Dove i testi sono oscuri è più perché l’autore ha dato per scontate determinate nozioni che non a causa del tentativo intenzionale di mantenerle segrete».
5 Si può, comunque, evidenziare che le assonanze tra pittura e tintura hanno interessato anche e proprio il significato del colore quando in questo si è visto, appunto, l’elemento di imitazione della natura per eccellenza. E a tale proposito si riporta ciò che scrive nel 1794 Gioachin Burani, tintore veneziano: «Da questa bell’arte si ritrova il segreto di imitare quanto vi è più bello e vago nella natura, e si può dire in qualche maniera ch’ella è l’anima che fa vivere tutto ciò che ha per oggetto » (in Franco Brunello, L’arte della tintura nella storia dell’umanità, Neri Pozza, Vicenza, 1968). Infine possiamo ricordare che per qualificare i colori vengono usati spesso riferimenti a piante o elementi naturali come verde salvia, giallo limone, carnicino; e anche nei nomi meno convenzionali adottati nell’elaborazione delle cartelle colori nel settore moda termini come muschio, paglia, cannella sono usati con frequenza.
6 Franco Brunello, L’arte della tintura nella storia dell’umanità, cit. p. 99-100.