Enrico Frigerio
Librìa, Melfi 2009
111 pagine, ill.,
prezzo: 14,00 €
testo in italiano
In una società ossessionata dal “taylorismo industriale” e dalla “stakanovismo sovietico” come la nostra, per fortuna c’è ancora qualcuno che rinnega la vita vissuta al parossismo e consacrata agli emblemi del consumo “veloce” per scegliere, controcorrente, di “scalare la marcia”, a beneficio non solo di una più consapevole visione della professione di architetto ma anche di un approccio culturale ed esistenziale che privilegia, in generale, la “qualità” alla “quantità”. Enrico Frigerio è tra questi.
Questo piccolo e gradevole libricino, concepito quasi totalmente senza immagini per non “distrarre” l’attenzione (c’è solo qualche piccolo schizzo), lasciando pieno spazio alle parole e attraverso un linguaggio schietto e ben poco influenzato dall’ “architettese”, getta luce sul concetto di “Slow Architecture” introdotto da Frigerio alcuni anni fa e incoraggia energicamente il lettore a una riflessione critica sulla professione di architetto oggi.
Mutuando da Perec le ”istruzioni per l’uso” del titolo e da Carlo Petrini il termine “slow”, qui applicato all’architettura invece che al “food”, Frigerio riprende il filo del discorso già iniziato con la mostra-manifesto “Frigerio Design Group – A journey in Slow Architecture”, affacciatasi alla ribalta europea (Firenze, Milano, Ferrara, Copenaghen, Praga,…) nel 2006.
Fare “Slow Architecture” significa prima di tutto, per l’architetto, scendere dal piedistallo del “demiurgo” per perseguire con umiltà e coerenza una genuina “cultura del fare” in barba alla globalizzazione, nel rispetto delle specificità del luogo e della natura, di processi produttivi ecosostenibili e di una progettualità lungimirante che riguarda l’intero ciclo della “vita utile” dell’edificio, dal germe ideativo della forma alla gestione dell’opera.
Lo dimostrano bene alcuni lavori dell’architetto torinese (il recupero dell’ex area Sambonet a Vercelli; l’ampliamento del quartier generale di un gruppo bancario a Parma; i nuovi magazzini Sambonet a Novara; il concorso a Jeddah; la tribuna ecologica del circuito di Imola; la ristrutturazione di un parco sulla tangenziale Milano/Lecco; la palestra a Giussano, MI) in cui si coglie la rara umiltà del progettista che, deponendo il proprio “ego”, declina con forte sensibilità le sue competenze a servizio di un’architettura più etica e scrupolosa nei confronti dei bisogni dell’utenza, nel rispetto dell’ambiente, dei costi e i tempi di produzione, rinunciando tuttavia a suggestioni vernacolari per perseguire scelte critiche motivate e sempre attuali.
Tra le altre “istruzioni per l’uso” della “Slow Architecture”, emergono anche la necessità di una continua ricerca per acquisire la piena padronanza degli strumenti sia “teorici” che “pratici” del mestiere, l’esigenza di un approccio progettuale che sappia garantire la flessibilità e la capacità progressiva di rinnovamento dell’opera nel tempo, l’impegno a una qualità totale e a una cooperazione sinergica tra gli attori del processo compositivo.
Se davvero, come dice Frigerio, “la nostra vita dipende dalla qualità degli spazi in cui viviamo”, la responsabilità dell’architetto è enorme. Ben venga allora il contributo di chi sa fare il mestiere con onestà intellettuale, “senza gridare e senza barare”, facendosi promotore di un più cosciente e concreto “umanesimo” a servizio di un reale miglioramento della qualità della vita.
Chiara Testoni