Kazuyo Sejima (Direttrice XII Biennale d'Architettura)
Ha inaugurato il 28 agosto la XII Mostra Internazionale di Architettura presso la Biennale di Venezia. Per la prima volta diretta da una donna, Kazuyo Sejima, dello studio giapponese SANAA, riportiamo le prime impressioni dopo le assegnazioni dei premi e i commenti della critica.
Per tutti coloro che da tempo lamentano una sovrabbondante presenza di opere tra le quasi infinite sale delle Corderie, troppo umide, troppo fredde, con troppi spifferi e senza neppure una sedia per il ripristino dei sensi, la Biennale curata da Sejima sarà un vero toccasana. La curatrice ha infatti proposto una selezione minima di opere e installazioni creando un percorso leggero che appare in alcuni punti poco fluido. In apertura della mostra presso le Corderie l’opera di Smilijan Radic + Marcella Correa che racconta di un Cile rinnovato, fatto di pietra e ottimismo.
Il lavoro di questi architetti impegnati socialmente nel loro paese viene descritto in modo efficace dall’elemento scultoreo al centro della prima sala. Retorico e positivo il film di Wim Wenders, rigorosamente in 3D come vuole la nouvelle architecture, che descrive 24 ore nel e del Rolex Learning Center, ultima fatica dello studio SANAA con tanto di cammeo finale: Sejima e Nishizawa rapidi fruitori del loro stesso lavoro. L’omaggio a Wenders, uno dei cineasti più sensibili e vicini al mondo dell’architettura, è parso un atto doveroso che è molto piaciuto al pubblico della Biennale così come positivo è stato il giudizio sull’auto referenzialità della curatrice vera protagonista del cortometraggio. A differenza di precedenti curatori-critici, la Sejima ci racconta di un’architettura che si può fare, di un progetto recente già realizzato, di un futuro possibile per una professione autoriale schiacciata da figure di mediazione ormai divenute più importanti dell’architetto stesso. Stroboscopica l’installazione di Olafur Eliasson, molto appariscente e composta in realtà solo di acqua e tubi flessibili, porta l’acqua all’interno dell’Arsenale con un gioco di flash contro il tappeto scuro della sala che inghiotte lo spettatore.
Mastodontica l’installazione di Anton Garcìa-Abril&Ensamble Studio; Balancing Act è letteralmente un gioco di equilibrio tra due linee strutturali poste in senso longitudinale nello spazio dell’Arsenale. Vale lo stesso per i modelli strutturali autosufficienti presentati da Christian Kerez o per il complesso gioco di spazi rivelato da 7 houses for 1 house di architecten de vylder vinck taillieu. Uno sforzo descrittivo che la curatrice sembra aver costruito intorno all’assiomatica affermazione “forms follow structures” declinato attraverso una serie di esperienze recenti, interrotte solo da alcune eccezioni.
L’installazione di Olafur Eliasson
L’attrazione principale della mostra è indiscutibilmente Cloudscape di Transsolar&Tetsuo Kondo Architects composta da aria satura di acqua, luce, cor-ten e silenzio. In perfetto accordo con le ultime tendenze del design, che hanno visto nelle nuvole il simbolo di un’architettura rinnovata e visionaria, i progettisti hanno immaginato una stanza in cui è possibile vivere l’esperienza dell’attraversamento di un grande nucleo di condensazione: una nuvola appunto. Indubbiamente debitori di Diller&Scofidio che con il loro Blur Building avevano emozionato nel 2002 i visitatori dell’Expo svizzera, questi architetti atmosferici hanno saputo inscatolare un principio poetico di chiara efficacia. Meno spettacolare ma certamente più ricca la sontuosa installazione dello Studio Mumbai Architects, collocata quasi come uno spazio di lavoro tra le sottili riflessioni delle stanze attigue, sta a ricordarci il profumo dell’opera artigiana, le maestranze e gli strumenti di bottega.
Carta bianca poi ad Hans Ulrich Obrist celebrato più che celebrante nel suo titanico sforzo di archiviare le parole del mondo (ha realizzato sinora quasi 2000 ore d’interviste) e qui presente sia con un progetto specifico per la Biennale – le interviste ai protagonisti – sia con un omaggio a Cedric Price (in attesa della famosa mostra sui progetti utopici). Prevedibile la presenza di Mark Pilmott e Tony Fretton, le cui architetture sono state spesso accostate dai critici alla sensibilità tettonica giapponese, hanno presentato un’installazione, Piazzasalone, in pieno “gusto Sejima” con tanto di vecchia Alfa Romeo piazzata con i fari accesi in mezzo alla sala.
Da osservare con cura sono le immagini di Walter Niedermayr che svelano sotto voce le grandi contraddizioni e ambiguità del mondo arabo in bilico – come dimostra l’esempio iraniano da lui immortalato – fra tradizione locale e globalizzazione di matrice occidentale. La presenza umana scivola negli sfondi, scompare inghiottita da un’archittettura-città, esce ed entra in scena come farebbero i tecnici durante le prove in teatro. Chiude il percorso delle Corderie la cupola di Amateur Architecture Studio, una struttura leggera, composta da assi di legno usati negli imballaggi al porto di Venezia, ed assemblati secondo un disegno basato sui più semplici principi edilizi, facilmente leggibile anche dai non addetti ai lavori. In bilico tra l’auto-costruzione e lo studio delle forme tradizionali veneziane applicate ad una struttura tipica cinese questo progetto racconta le ricerche di un’architettura adatta alle esigenze dei paesi più poveri.
Da vedere anche il lavoro di OFFICE – presente in mostra insieme a Bas Princen le cui fotografie sono valse allo studio belga-olandese un Leone d’Argento – così come le opere di Valerio Olgiati e le fotografie di Luisa Lambri in cui la luce assume una consistenza sacrale, assoluta.
Il contrappunto a questo percorso si evince già dalle scelte curatoriali del Padiglione Italiano in cui Luca Molinari mette in scena un cacofonico percorso tra l’architettura passata, presente e futura. Salva l’insieme un evocativo allestimento ad opera di Francesco Librizzi e Salottobuono che ricorda le opere dei Superstudio e l’epoca dei Radicali attraverso un omaggio felicemente riuscito.
Tra le partecipazioni nazionali, premiato con il Leone d’Oro il Regno del Bahrein. La giuria è stata particolarmente colpita “dalla scelta di una lucida ed efficace autoanalisi della relazione del paese con il rapido cambiamento della sua linea costiera. In questo intervento forme di architettura transitoria sono presentate come dispositivi capaci di rivendicare il mare come spazio pubblico: una risposta eccezionalmente semplice, nonostante la sua impellenza, a People meet in architecture, il tema proposta dal direttore della Mostra Kazuyo Sejima”. Molto apprezzato anche il padiglione Olandese che rivela allo spettatore quante e quanto siano varie le proprietà immobiliari nel paese così come le possibili applicazioni che questi spazi offrono. Ole Bouman, propone un cielo in cornice composto da plastici azzurri e minimali di questi progetti temporanei. Svuotato del suo contenuto il padiglione si legge solo attraverso la scala che porta al tetto: un modo inconsueto per riassumere l’intento del progetto curatoriale. L’Inghilterra dedica a John Ruskin un anfiteatro in legno e un percorso emozionante attraverso il pensiero del grande teorico. Un’Australia in 3D scaraventa lo spettatore tra le visioni futuristiche dei migliori studi del paese e, almeno qui, il 2050 sembra davvero vicino. La Svizzera racconta i suoi ponti, sublimi e sconosciuti ai più, mentre Israele svela i segreti e le storie dei Kibbutz.
In accordo con la sensibilità della direttrice della Mostra, molti paesi hanno aperto le porte delle proprie realtà più private, riecheggiando gli odori dell’Arsenale, in cui si ha l’impressione di essere davvero all’interno dello studio SANAA tra schizzi, plastici, mock up e video dei progetti. Una Biennale intima, in cui ogni stanza corrisponde ad un elemento: terra, aria, acqua, fuoco, legno, all’interno di un’atmosfera rarefatta, illuminata dal sole d’oriente.