Videointervista a Andrea Branzi, prima parte
L’“intervista” (da intervisere, visitare qualcuno, andare a vedere), prima ancora di una serie di domande, è un incontro, un momento di condivisione che si svolge “viso a viso” tra persone, suggellato in un secondo tempo dal colloquio e dalla conversazione. Intervistare è fare visita a qualcuno per il piacere del confronto, del dialogo, ancor prima del significato contemporaneo di “indagine” attraverso una sequenza di interrogativi che ruotino specificatamente intorno ad argomenti e direzionino verso specifici obiettivi.
Alla forma dell’“intervista”, intesa come partecipata comunicazione, si è scelto di affidare il racconto sul design, e non solo, espresso da Andrea Branzi in occasione del Ventennale della Facoltà di Architettura di Ferrara, quando l’architetto Alessandro Deserti, docente del Politecnico di Milano, poco prima si procedesse con la lectio magistralis “Oggetti e territori”, ha indirizzato una riflessione dialogica sui temi importanti per il maestro.
Non solo design ma anche cultura urbana, architettonica, ambientale, tecnologica e antropologica, sin anche spirituale, affiorano dalle parole di Andrea Branzi che qui si riportano attraverso il formato “video”.
All’efficacia della comunicazione diretta, spontanea, del mezzo “intervista” – affidata alle parole – si è scelto di aggiungere l’immediatezza percettiva della riproduzione filmica di quei momenti – attraverso la riproduzione di voce e immagini dinamiche -, per consegnare il messaggio al sempre più esteso pubblico che fruisce dei canali di condivisione in rete.
Videointervista a Andrea Branzi, seconda parte
Di Andrea Branzi esiste una sconfinata produzione scientifica, riflesso di intensa attività di riflessione teorica; un documento in formato video aggiunge ulteriore conoscenza. Perciò il presente racconto, girato, curato e montato nella sua interezza, risponde alla scelta di una comunicazione volutamente non sintetica e che, in un certo qual modo, contraddice i principi stessi di concisione e velocità che più di altri si sono in breve radicati nella divulgazione al pubblico contemporaneo per mezzo dei canali digitali.
Riflessione, comprensione, esperienza, richiedono tempo.
Si è scelto di presentare l’“intervista”, il succedersi della sequenza interlocutiva svoltasi tra Branzi e Deserti, come materiale di cultura documentaria, affinché possa trovare, grazie ai dispositivi digitali del presente, conservazione nel tempo e diffusione di grande respiro.
Dalle sequenze di montaggio il protagonista emerge in toto con le sue peculiarità. Partendo dalle riflessioni-quesiti proposti da Alessandro Deserti, riprende in esame i tratti fondamentali del suo percorso lasciando cogliere attraverso la fisicità dei movimenti, i toni del parlato, il movimento degli occhi, la potenza d’avanguardia del suo pensiero critico-progettuale e inequivocabilmente la sua personalità.
La vicinanza che la visione di una video-intervista consente, rispetto alla lettura della stessa riproposta testualmente, annulla le distanze con lo spettatore e, riproducendo il movimento della figura umana con quanto più obiettivo realismo, scioglie l’“aurea” in cui le parole impresse su carta avvolgono il lettore.
Affidare una conversazione così specialistica quanto “universale” come quella svoltasi tra Branzi e Deserti alla riproduzione in formato video, è un po’ generare, per la durata della sua sequenza, un effetto di fedeltà e tangibilità, consentendo la visione diretta dell’autore-protagonista e innestare così empatia nello spettatore, come potesse “entrare” anch’egli nello spazio della sala di registrazione.
Videointervista a Andrea Branzi, terza parte
Lo svolgersi del ragionamento
L’incontro muove dalla riflessione, propria di Branzi e già espressa più volte nei suoi scritti, della continuità/contiguità tra le discipline architettura e design. Design che non è più solo “progetto di oggetti” ma, a scala differente, si fa spazio e città. Eppure la specificità che il design aggiunge, secondo Branzi, è stato l’aver avvertito – in specifico con i movimenti radical degli anni ’70 – la frattura interna all’idea di “modernità”, secondo la quale progettualità territoriale, progettualità architettonica e universo oggettuale del design sono attività indirizzate e interconnesse dall’ordine raziocinante ed equilibrante del pensiero.
La città contemporanea, contrariamente, si avvicina ad essere un “sistema molecolare complesso”, territoriale – ciò, nel XXI secolo, è ufficiale –, ove informazione, merceologia e servizi si mescolano e “bypassano” l’architettura (e il repertorio di forme codificate di cui sarebbe portatrice). Quest’ultima non è più la protagonista della scena urbana quanto piuttosto, con solitarie “eccezioni visive”, è trasformata essa stessa in “prodotto”. Tale rivoluzione è evidente dal Guggenheim di Bilbao in poi.
Gli scenari architettonici che compongono la città sono solo “apparentemente” reali, fisici, quanto in larga parte più immateriali, tessuti intangibili di relazioni informatiche e umane.
Il ragionamento di Branzi – assimilato per vicinanza di pensiero a quello di Zygmunt Bauman – pur sembrando massimalista rispetto agli aspetti conflittuali e avversi dell’epoca presente, lascia affiorare l’idea che la trasformazione, il raggiungimento di una qualità migliorativa, sia possibile partendo dal basso, attraverso l’attitudine riformista individuale diffusa e “debole”, non attraverso programmazioni complessive e globalizzanti
Videointervista a Andrea Branzi, quarta parte
Così, nella società del XXI secolo, è proprio il mondo degli “oggetti” ad acquisire una centralità strategica perché, sempre mutevole e adattabile, può insinuarsi negli interstizi di “vuoto” e dare risposta alle migliaia di esigenze e varianti espresse dagli uomini. Come in epoche precedenti la poesia, la musica, la pittura, hanno consentito alle generazioni giovani la “realizzazione del sé”, oggi è il design la “professione di massa” capace di avvicinare l’uomo alla comprensione del suo “mistero” nell’abitare l’universo.
Il mondo dell’“oggetto”, delle piccole cose, è solo apparentemente secondario e “inutile”; proprio ciò che sembra superfluo, fine a se stesso, esprime le esigenze profonde del tempo, le caratteristiche intangibili, “soft”, che danno forma alla realtà e allo “spirito del tempo”.
Affiora pertanto dalle parole di Branzi, il tema dell’intangibile, dell’immateriale, che può essere riconosciuto per esempio attraverso la “sensorialità”.
Senza muovere, per ora, ideali e concetti evanescenti, per “Immaterialità” può intendersi anche la qualità dei microclimi interni all’architettura che ne definiscono “il perimetro d’identità”. Molto realisticamente il caso riportato è proprio quello della qualità ambientale consentita dai condizionatori che, incredibilmente, ora assumono per lo spazio una valenza culturale, espressiva, non riconosciuta in precedenza nella storia dell’ambiente costruito.
La crisi dell’architettura e l’affermazione del design, la messa in discussione della produzione di massa delle grandi industrie e la relazione con l’artigianato - mai scomparso quanto invece divenuto territorio di ricerca –, l’autoproduzione, l’avanzamento tecnologico estremo del settore agroindustriale, sono cambiamenti congiunturali al contesto presente, non fasi permanenti nel tempo ma coniugate con le condizioni geo-economiche attuali.
Le ricerche di Andrea Branzi come pensatore e progettista, hanno compreso ciò con grande anticipo e ora il maestro, a posteriori, visualizza e vive l’autenticità delle riflessioni svolte al tempo dell’utopia “radical” con l’affermazione della No-stop city.
Oggetti e territori
Andrea Branzi affronta il pubblico presente alla Lectio magistralis di Palazzo Tassoni Estense – studenti di architettura e design, ma non solo - con la freschezza e lucidità di uomo orientato per vocazione alla divulgazione del pensiero, palesando la forza del suo pensiero progettuale temprato dall’esperienza e dalla consapevolezza maturata attraverso il ragionamento teorico.
Gli strumenti, i canali cui si affida nel corso della dissertazione sono molteplici. Accompagna il racconto in forma verbale con sequenze di immagini e filmati. Immagini in movimento, veloci, vorticose, sottolineate da impetuose colonne sonore che si librano dalla forma classica attraversano il rock per raggiungere le tendenze di ricerca musicale contemporanea più spinte. Proprio da territori come la musica, fuori dai confini canonizzati della disciplina, proviene la sua formazione, il suo pensiero sul design.
Nel corso della trattazione Branzi si soffermerà ancora sul tema centrale dell’urbanizzazione veicolando un messaggio per le città del presente, defintite “favelas ad alta tecnologia”, attraverso una lista di indicazioni che riformano l’idea di Carta d’Atene del 1933, ultimo progetto formulato sulla città ma da superarsi osservando l’evoluzione del presente.
Più che un modello architettonico, la nuova carta d’Atene di Branzi (manifesto presentato alla Biennale di Venezia del 2010) è un modello mentale, un’attitudine a riflettere su uno scenario in continua evoluzione con occhi aperti e mai stanchi. Con parole e immagini presenta la città come un “organismo vivente in continua trasformazione”, basata su economie virtuali di relazioni materiali e umane; un grande luogo di “ospitalità cosmica” per il quale studiare modelli di urbanizzazione “deboli”, con assetti ibridi, partendo dall’osservazione di realtà anche molto distanti dalla civiltà occidentalizzata.
Lo spazio della civiltà è “un giacimento genetico”, luogo di vita e di morte, aggregato umano in continua evoluzione. Si lavori per essa sui “confini sfumati”, privi di separazioni rigide, ove possono controllarsi minimi “microclimi” per ciascuna attività e ove i “microinterventi” dei singoli e delle comunità “come uno sciame” possano diventare “trasformazioni” generali.( tutto il pezzo va virgolettato? Sono sue parole? Si lavori fa intendere ciò)
Il viaggio prosegue raggiungendo un’idea, l’ultima del percorso, ovvero l'idea di “infinito”, di orizzonte illimitato, categoria - nel Rinascimento identificata con la prospettiva - scomparsa dai modi attuali di pensare l’architettura, composta da singoli, piccoli, episodi. Infinito è confrontarsi con qualcosa che è oltre, al di là dell’orizzonte.
Il grande impegno personale, al presente, per Andrea Branzi è riflettere e operare per portare all’interno della cultura progettuale, del design, un “segno del turbamento”. Lo smascheramento dalla “bella forma”, per le altre discipline quali arte, musica e letteratura, è già avvenuto nel corso del secolo scorso quando, immergendosi nella realtà storica, si sono fortemente rinnovate.
Proprio il design che riveste un nuovo importante ruolo nell’economia globalizzata di gestione e rifunzionalizzazione urbana, deve superare se stesso.
Ciò può avvenire solo raccontando il vero: “il lieto fine non è più garantito”. Questa constatazione non per affermare una pessimistica resa, quanto proprio per affrontare presente e futuro con consapevolezza, realismo, acquistando profondità attraverso l’interpretazione dei grandi temi antropologici.
“Al di là del mercato esistono delle piattaforme antropologiche sulle quali confrontarsi. Sono i temi della vita, della morte, del destino, del sacro. La cultura del progetto non li ha mai elaborati né come ricerca (e) né come sperimentazione. Bisogna cominciare a farlo perché ormai la responsabilità del design è nuova e diversa”.
Il pensiero di Branzi è “elettroforo”, emette scosse, riattivazioni celebrali…
Sostiene e difende, al di là della logica ancora comune nella cultura del progetto “ufficiale”, un pensiero che ancora può dirsi radicale. Guarda ad altri universi, più biologici che costruttivi; accetta il rischio dell’essere “incompreso” affermando che cultura di progetto non è solo attività destinata alla realizzazione e che “le cose pensate esistono quanto quelle realizzate”.
Cosciente dunque delle difficoltà, dei vincoli, ancora una volta ha la forza di destabilizzare.
E lancia a tutti un monito: “bisogna mettere la testa fuori, non lasciarla intrappolata”.
Veronica Dal Buono
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