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Nella casa della vita – La cappella Finzi

08 Giugno 2015


Enrico De Angeli, cappella Finzi nel Cimitero ebraico di Bologna, 1938. Vista d’insieme da sud-est.

 

 

Enrico De Angeli (1900-1979) è stato uno di quegli architetti che per una concomitanza di circostanze non ha avuto modo di esprimere appieno il proprio talento. Accompagnato in vita dalla nomea di personaggio scomodo, polemico e in ricorrenti condizioni di ristrettezza economica, l’attenzione che a posteriori è stata dedicata ad una figura in cui «la solida preparazione tecnica ed espressiva» convive con «il tormento interiore che diventa estasi, visione, bellezza»1 resta prevalentemente limitata all’ambito bolognese in cui ha vissuto ed operato. Nel non ampio catalogo di opere costruite, la cappella Finzi nel cimitero ebraico di Bologna è un piccolo scrigno che silenziosamente condensa molti tratti della sua poetica in una ricercata semplicità che è, al contempo, ricca di una pluralità di riferimenti.
Non è tuttavia disponibile alcuna documentazione dell’iter ideativo e realizzativo dell’opera e questo è con ogni probabilità ricollegabile alle vicissitudini che l’architetto di origine ebraica deve fronteggiare all’indomani del suo compimento. A due anni da quello che è considerato il suo capo d’opera, la villa Gotti sulle prime pendici collinari bolognesi, la cappella è, infatti, realizzata nel 1938, ovvero nello stesso anno in cui prende avvio l’emanazione delle leggi razziali che per De Angeli hanno come conseguenza la radiazione dall’ordine professionale e, di lì a pochi anni, tragiche vicende familiari che lo segnano profondamente.
Nel suo archivio non vi è, in ogni caso, traccia di questo progetto e ciò nonostante egli fosse solito conservare meticolosamente tutto, come si può evincere anche dalla documentazione disponibile per altre opere cimiteriali: dalle prime ipotesi alla soluzione definitiva, dalla corrispondenza con la committenza ed i fornitori ai preventivi e agli ordinativi pressoché indispensabili per l’esatta identificazione dei materiali utilizzati2.

 


Enrico De Angeli, cappella Finzi nel Cimitero ebraico di Bologna, 1938. Vista d’insieme da nord-est.

 

 

L’unica, piccola testimonianza finora riemersa da quella che appare una vera e propria cancellazione della memoria è conservata nell’Archivio storico comunale: un carteggio risalente al 1939-40 concernente un intervento manutentivo, peraltro non eseguito, richiesto da un membro della famiglia, l’ingegner Rinaldo Finzi3.
Allo stato attuale, non resta pertanto che interrogare l’enigma dell’opera come oggi appare.
Una stereometria elementare propone la stilizzata rappresentazione dello spazio antistante ad un ambiente domestico: ortogonalmente ad un vano posteriore, addossato al muro di cinta del campo e a cui si accede attraverso la porta di ingresso alla “casa”, si stacca sulla sinistra un setto su cui poggia il “pergolato” sostenuto, all’altra estremità, da un pilastrino in tubulare metallico.
Prima e oltre il trattamento materico delle superfici, il conferimento di un’aura di solennità ed il collegamento con il divino è poi affidato all’armonia delle proporzioni: la composizione è inscritta all’interno di un parallelepipedo di altezza pari alla profondità e nel quale pianta e prospetto frontale sono quasi esattamente rettangoli aurei.
Attraverso un’interpretazione come sempre personale, perpetuità e vita quotidiana sono così ricongiunte in un’unica immagine che è riconducibile ad uno dei termini attraverso cui la tradizione ebraica definisce il cimitero: Bet Ha-Chaim, ovvero “casa della vita” o “casa dei viventi”.

 

 


Cappella Finzi, dettaglio dell’inferriata nel setto laterale e della porta di accesso al vano posteriore.

 

 

La struttura muraria è rivestita in granito grigio-verde e lo stesso materiale è utilizzato per il basamento con la pietra tombale di accesso alla cripta. Con una scelta che consente di armare l’esile struttura, la pietra artificiale, una graniglia piuttosto fine, è invece impiegata per realizzare il cordolo che avvolge la copertura piana e diviene, nella parte anteriore, trave portante del “pergolato”, evocazione mediterranea resa aulica dal rivestimento in rame.
In un’ampia porzione della parete frontale è poi impiegato un marmo verde; con questo materiale è realizzato il blocco in cui sono collocate dodici lapidi allineate e semplicemente portate in aggetto rispetto ai corsi delle lastre in granito che rivestono la parete, nonché i blocchi in massello che definiscono l’imbotte della porta d’ingresso al vano posteriore e l’antistante portale zoppo costituito da un piedritto e da un architrave ancorato al setto laterale.
A maggior ragione se rapportata al contesto bolognese di quegli anni, la modernità dell’opera è dirompente e del tutto in linea con quanto sostenuto già nel 1931 dal De Angeli critico: «La modernità è in atto, e – bella o brutta – si impone come tutte le cose vitali ed esuberanti»4. È un’idea di modernità che non ammette compromessi, tanto da spingere De Angeli, in uno dei suoi più noti ed appassionati contributi al vivace dibattito sull’architettura di quegli anni, a esprimere rincrescimento all’amico Giuseppe Vaccaro per la sua adesione all’operazione di “mediazione” messa in atto da Marcello Piacentini5.

 


Cappella Finzi, dettaglio della fioriera.

 

 

D’altro canto, come ha osservato Giuliano Gresleri, De Angeli «usa il “moderno” come categoria che accetta e sollecita la trasgressione» attraverso una «sperimentazione intellettuale orientata all’accettazione di un pluralismo di culture da egli singolarmente anticipato»6. In questo senso, egli è altrettanto convinto che la decorazione – che tiene a distinguere dal decorativismo – «è una istanza della psicologia umana (…) si voglia o no, noi tutti facciamo della decorazione»7.
All’astratta composizione dell’insieme e alla laconicità di sapore miesiano dell’apparato lapideo fa così da contrappunto l’inserimento di alcuni dettagli che affidano alla matericità del rame e del bronzo l’espressione di una figuratività che non rinuncia ad essere innovativa anche nel richiamare i simboli della tradizione ebraica e nel far ricorso ad abilità proprie delle arti decorative. All’interno di una griglia ancora geometrica, l’inferriata della finestra nel setto laterale presenta sull’asse verticale due stelle di David frapposte ad un riquadro centrale nel quale spiccano due mani aperte che si toccano. La fioriera a fianco della pietra tombale racchiude all’interno di due robuste linee una reinterpretazione del candelabro a sette braccia, proponendo una forma inedita che ha, al tempo stesso, una forte carica di arcaicità. Nella stessa direzione, una controllata monumentalità arcaica è evocata dalla porta di ingresso al vano posteriore, con il disegno a riquadri e all’interno di questi un più stilizzato candelabro a sette braccia, abbinata alla profonda imbotte e al portale in lastre di grosso spessore.

 


Enrico De Angeli, Tomba Caruso nel Chiostro terzo della Certosa di Bologna, 1942. Versione di progetto non realizzata con quinta a griglia in travertino; sezione. (AAB-fondo De Angeli, b. 2R – 28.1)

 

 


Enrico De Angeli, Tomba Caruso nel Chiostro terzo della Certosa di Bologna, 1942. Versione di progetto non realizzata con quinta a griglia in travertino; pianta. (AAB-fondo De Angeli, b. 2R – 28.1)

 

 


Enrico De Angeli, Tomba Caruso nel Chiostro terzo della Certosa di Bologna, 1942. Soluzione definitiva, preventivo per la fornitura dei materiali. (AAB-fondo De Angeli, b. 2R – 28.1)

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Quale metafora dello scorrere del tempo e del ciclo della vita anche a fronte della morte, il “pergolato” che delimita lo spazio senza chiuderlo introduce poi un elemento di variabilità nella fissità dell’architettura: l’ombra che esso proietta scivola lungo la parete frontale durante il mattino, per distendersi a terra nel pomeriggio. Ed il segno netto, per quanto immateriale, dell’ombra proiettata da una griglia è di lì a poco riproposto, in questi casi come setto verticale, nella non realizzata cappella Fabrizi del 1939/418 e nelle prime versioni della tomba Caruso del 19429.

 

Stefano Zagnoni


 

Note
1 Giancarlo Bernabei, Gli scritti e l’opera di Enrico De Angeli, Patron, Bologna 1985.
2 Il fondo archivistico De Angeli è conservato presso l’Ordine degli Architetti di Bologna all’interno dell’Archivio Architetti Bolognesi (AAB).
3 ASCBO (Archivio Storico Comunale di Bologna), Carteggio amministrativo, titolo VIII – R 4, PG 21754/1939.
4 Enrico De angeli, “La Triennale”, Il Tevere 19 agosto 1931, cit. in Giancarlo Bernabei, cit., p. 20.
5 Enrico De angeli, “Lettera aperta a Giuseppe vaccaro”, Il Tevere 4 giugno 1931, ora in Giancarlo Bernabei, cit., pp. 83-87 e in Michele Cennamo (a cura di), Materiali per l’analisi dell’architettura moderna. Il MIAR, Società editrice napoletana, Napoli 1976, pp. 338-341.
6 Giuliano Gresleri, “L’immaginaria architettura di Enrico De Angeli”, in Giuliano Gresleri, Pier Giorgio Massaretti (a cura di), Norma e arbitrio. Architetti e ingegneri a Bologna 1850-1950, Marsilio, Venezia 2001, p. 258.
7 Enrico De Angeli, “Architettura Sacra”, intervento al convegno “Dieci anni di architettura sacra Italia 1954-1955”, Bologna 1956, ora in Giancarlo Bernabei, cit., p. 137.
8 AAB-fondo De Angeli, b. 3R – 29.6.
9 AAB-fondo De Angeli, b. 2R – 28.1. Cfr. anche Daniele Vincenzi, “Enrico De Angeli”, in Beatrice Buscaroli, Roberto Martorelli (a cura di), Luce sulle tenebre – Tesori preziosi e nascosti dalla Certosa di Bologna, Bononia University Press, Bologna 2010, pp. 269-70.


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