Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala della città.
Gli oggetti
La mostra è organizzata in nove sezioni: “sala dell’Economia”, “sala di Taddeo Gaddi”, “sala della vita pubblica e privata”, “sala della Croce degli Uffizi”, “sala della Casa”, “sala di Giotto e Arnolfo”, “sala della Scienza”, “sala della città”, “sala delle proiezioni”.
Il percorso espositivo presenta ben 222 ‘pezzi’ di vario genere: sculture, bassorilievi, affreschi staccati, polittici e dipinti, codici miniati, monete, documenti contabili, armi, oggetti d’uso quotidiano. La provenienza delle opere è varia: dal Museo del Bargello allo Stibbert, dall’Archivio di Stato di Firenze alla Biblioteca Nazionale.
Non tutti gli oggetti, come sopra ricordato, sono in esposti in originale: ci sono calchi di bassorilievi, nonché moltissime fotografie di dipinti e documenti. Parte integrante dell’esposizione sono infatti le numerose riproduzioni di codici miniati della Biblioteca Apostolica Vaticana o della Biblioteca Laurenziana in diapositiva, esposte con un’originale strumentazione ostensiva, oggetto di una progettazione di dettaglio di notevole complessità. Completano l’esposizione alcune riproduzioni al vero o in scala di dipinti (affreschi della chiesa Inferiore di San Francesco ad Assisi) e di apparati decorativi (Museo di Casa Davanzati, Firenze), scompaginate e presentate come singolari composizioni per frammenti, ideate dallo stesso Savioli: si tratta di soluzioni che entrano da protagoniste nel piano dell’esposizione e che costituiscono una delle elaborazioni più innovative del progetto allestitivo1.
Il tema del rapporto originale fac-simile, esplorato provocatoriamente da Alexander Dorner (1893-1959) nella celebre esposizione del Kestner Museum di Hannover nel 1929-1930 e tornato in auge con la pubblicazione della biografia dello stesso Dorner (1958)2, è qui percorso secondo un particolare registro creativo che trasforma le immagini in oggetti dalle specifiche valenze espressive: non si tende alla mistificazione (ovvero far sembrare la riproduzione un originale), ma piuttosto a rendere evidente la natura dell’oggetto, estremizzandone le caratteristiche preminenti mediante la valorizzazione della trasparenza della lastra, ottenuta con la retroilluminazione.
Per i calchi delle formelle del Campanile di Giotto, inoltre, la disposizione di una luce radente, con l’enfatizzazione delle valenze della superficie, rende facile la comprensione da parte dello spettatore della matericità dell’oggetto e dunque il suo essere copia.
Leonardo Savioli, Pianta dell’allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante (da Domus, 1965).
Gli ensembles realizzati dall’architetto nel vasto palinsesto allestitivo rimangono sempre nell’alveo della corretta percezione dell’opera, come pure nella dimensione dell’attenzione alla sua comunicabilità: lo studio dell’altezza dei supporti delle sculture o la sistemazione delle vetrine sembra infatti rispondere a quel criterio di “misura” invocata da Ragghianti per il suo ideale museo che dovrebbe restituire “volta a volta col massimo possibile rigore il dictamen basilare dell’artista”3.
Il racconto e il medium espositivo
Nei vasti spazi del Palatium della Certosa l’architetto crea una narrazione sintattica che evidenzia le connessioni fra gli oggetti esposti. L’impaginazione museografica è presentata secondo uno schema tridimensionale che non occulta ubiquitariamente il piano delle pareti, ma informa tutte le parti dell’allestimento: dall’illuminazione alle bacheche, dai basamenti agli strumenti di comunicazione (supporti per le didascalie). Il progetto si presenta dunque come creazione spaziale dalle evidenti valenze plastiche, con cui si dà originale formatività ai contenuti da esporre, ma lasciando al contempo libero l’occhio del fruitore di scoprire o auto-costruire le relazioni interne al racconto espositivo: “mi è sembrato – scrive Savioli – essere necessario creare più che altro, con mezzi moderni, un clima, una tensione, una sorta di «avvenimento» possibile, nel quale oggetti e spettatori fossero in un certo senso più intimamente chiamati, interessati, coinvolti”4, parole che evocano le riflessioni di Umberto Eco5.
Ferro, vetro, perspex, sono i materiali con cui è realizzato l’allestimento; si tratta di tipologie materiche lontane e diverse da quelle del monumento e degli oggetti esposti6. Ai muretti e nicchie di gesso bianco sembra essere affidato il compito di mantenere aperto un dialogo con la espressiva massa muraria del contenitore, oltre a rievocare allusivamente contesti architettonici: è il caso delle due sagome ogivali sfalsate, raddoppiate e compenetrate, disposte perpendicolarmente (Sala di Taddeo Gaddi) a fare da sfondo alla Madonna di Taddeo Gaddi e a una sinopia di mosaico dalle collezioni dell’Opificio, suggerendo lo spazio di una cappella. Elementi portanti a vista in ferro sagomato verniciati di nero costituiscono la trama verticale e orizzontale principale. I setti di gesso definiscono ulteriormente gli spazi, e appaiono conformati secondo tagli rettilinei, curvilinei o diagonali in relazione alle opere che accolgono, per essere poi spesso reiterati o sovrapposti secondo un ideale piano delle ascisse. Viene proposto un sistema dominato da un’architettura metallica e vitrea, che diventa dispositivo ostensivo, integrando i corpi illuminanti.
Ogni parte è realizzata appositamente per l’esposizione dallo “Studio H” di Firenze, noto per l’abilità artigianale nell’arredamento di alta fascia e dell’allestimento interno di grandi natanti7. Nell’archivio Savioli si conservano gli elaborati esecutivi in scala 1:1 o 2:1 di tutti gli elementi dell’allestimento.
Il percorso diventa leggibile anche attraverso una riconfigurazione della superficie pavimentale8, scalettata su piani diversi che accoglie le filiere impiantistiche. Vengono al contempo enfatizzate le pause, con la sistemazione di sedute davanti ad alcuni oggetti, o create delle accelerazioni che guidano il visitatore nella comprensione delle opere come parti di un continuum narrativo. Da tale pavimento ‘artificiale’ emergono delle isole o delle penisole segnate nei profili dall’illuminazione, come anche cilindri metallici che nascondono l’illuminazione interna. Le varie unità che caratterizzano le superfici pavimentali sono evidenziate da una diversa colorazione delle moquette, scelta in tinte accese.
L’estrema varietà dei pezzi esposti porta l’architetto a delineare una serie complessa di supporti espositivi. Alcuni di questi riprendono soluzioni messe a punto nelle mostre precedenti, altri sono progettati del tutto ex-novo: il telaio metallico con l’espositore in ferro e vetro era presente nella mostra dedicata dell’Oggetto moderno, ma l’introduzione di differenti punti luce rinnova il senso della proposta allestitiva. I basamenti per le statue, inoltre, sono dei solidi in gesso bianchi, la cui geometria si adatta al percorso, secondo una soluzione già sperimentata nella mostra su Le Corbusier a palazzo Strozzi.
Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Schizzo di studio per la composizione dei “fotomontaggi”.
Per alcuni dipinti e bassorilievi l’architetto predispone dei parallelepipedi che si staccano dal piano verticale neutro (parete o pannelli) di quel tanto che basta per creare un appoggio minimo all’opera, che determina dunque le dimensioni del supporto stesso. L’effetto che si offre allo spettatore ripropone, alla stregua di una citazione visiva, la sistemazione ideata da Michelucci per i polittici della mostra di Giotto agli Uffizi del 1937.
Grandi teche polimateriche sono progettate per la documentazione archivistica: in alcuni casi il contenitore vero e proprio, in ferro verniciato di nero e vetro, ruota rispetto al parallelepipedo sottostante in gesso bianco, valorizzando il ruolo di snodo del dispositivo ostensivo nell’intelaiatura narrativa del percorso. La sequenza ideativa che determina la morfologia di tali supporti è descritta in uno schizzo dell’architetto: la matrice geometrica delle formelle delle porte bronzee del Battistero fiorentino viene qui risignificata in senso tridimensionale e astratto.
Sistemi di vetrine in sequenza per gli oggetti di minori dimensioni costruiscono un racconto per immagini, mentre la realizzazione di un articolato registro superiore - composto da lastre di vetro quadrate accoppiate e disposte ortogonalmente al supporto metallico orizzontale e ai relativi punti luce-, ne sottolinea la presenza.
La realizzazione dei dispositivi per la visualizzazione delle riproduzioni fotografiche (diapositive) è studiata nel dettaglio, come se si trattasse di preziosi complementi di arredo. Numerose e diversificate sono infatti le creazioni dei supporti per questi elementi: due frammenti del polittico Strozzi di Andrea Orcagna (Santa Maria Novella) sono inseriti in un sistema retroilluminato che prevede l’intersezione di un quadrato maggiore e di un cerchio minore; o ancora, una fotografia di un codice miniato viene montata su un dispositivo che intesse riferimenti sottili con lo schermo televisivo selezionando - come attraverso l’occhio di una cinepresa - due riproduzioni di dettaglio della pagina, scelte per illustrare il tema enucleato.
Spicca inoltre in questo senso la struttura composta da due lastre sottili di metallo nero, separate da un telaio che contiene i neon necessari alla retroilluminazione delle lastre: una serie di fori circolari inquadrano le diapositive nella parte rivolta verso lo spettatore9.
Di rilievo, per le forti assonanze con le esperienze artistiche coeve - interessate alle trasformazioni/trasfigurazioni degli oggetti-, appare la creazione dei cosiddetti “fotomontaggi”, ovvero la riproduzione e la libera scomposizione/ricomposizione di parti di affreschi, che Savioli aveva studiato personalmente10. In quest’ultimo caso, si attuano lo smontaggio e il rimontaggio dei brani dell’immagine dell’opera d’arte, e provocatoriamente pannelli di perspex ‘proteggono’ i frammenti esposti.
Attraverso questa decontestualizzazione – che è già connaturata all’operazione del mostrare in quanto è un estrarre l’oggetto dal contesto di origine11, e dunque è una operazione quasi di coerenza - l’oggetto mostrato assume significati ulteriori. L’immagine dell’oggetto diventa un ingrediente creativo del progetto allestitivo che si trasforma viepiù in una singolare installazione artistica, capace di trasmettere una fertile e attualizzata rilettura del passato che porta il dato storico in una dimensione totalmente contemporanea. Va sottolineato inoltre che per le riproduzione dei celebri affreschi assisiati12, si attua un preciso procedimento di selezione. L’opera è mostrata rendendo evidenti ed enucleando alcuni temi: del tendaggio, per esempio, sono evidenziate non solo la cromia e la fattura del tessuto ma anche la modalità dell’ancoraggio. Si trova così tracciato un passaggio concettuale fondamentale che apre alle dinamiche cognitive e relazionali del museo didattico contemporaneo.
Allo stesso tempo la modalità di comunicazione di queste ‘strutture’ dialoga con i pannelli pubblicitari, i cartelloni e la stessa televisione. L’atto artistico realizzato da Savioli in questi fotomontaggi è la consapevolezza apportata a tale “finzione”: come nel “neorealismo” o in parte della pop art dove l’artista “si rende chiaramente conto del carattere «problematico» delle sue indagini nella realtà visuale corrente, e intuisce che i risultati sono carichi di ambiguità di ogni genere”13, Savioli accetta il mondo fittizio della comunicazione di massa e lo restituisce trasformato quel tanto che basta a soddisfare le esigenze formali, e in questo caso didattiche, della sua opera.
Volendo, infine, ragionare sul dialogo di Savioli con gli altri protagonisti dell’architettura dei musei e degli allestimenti temporanei si deve rilevare l’originalità della sua proposta, profondamente intrecciata alle sue ricerche grafiche e pittoriche.
La fruttuosa relazione dialettica che nel lavoro di Savioli s’instaura fra allestimento e contenitore - in una dimensione che esplicita e materializza la poetica complessiva dell’architetto -, disegna un percorso di continua ricerca, segnato da una profonda aspirazione verso l’innovazione e la sperimentazione14.
Per l’individuazione dell’ordinata e l’ascissa del reticolo estetico e concettuale che informa il progetto espositivo di Savioli, due elementi appaiono dunque determinanti: in primo luogo la coerenza interna del pensiero compositivo dell’architetto nei molteplici versanti della sua attività (edificatoria, didattica, allestitiva); in secondo luogo, il valore di manifesto che questo settore della sua attività assume in relazione sia all’architettura, sia alle riflessioni di cui l’architetto si fa catalizzatore e a cui sono chiamati a partecipare più attori, con metodo aperto e interdisciplinare. Un’eredità dunque, teorica e concreta, che ci consegna tasselli fondamentali per acquisire maggiori conoscenze sulla figura di questo protagonista dell’architettura fiorentina nei decenni a cavalieri della metà del XX secolo.
di Emanuela Ferretti
Note
1 Vedi oltre.
2 Carlo Ludovico Ragghianti, “Il Museo Vivente”, recensione al volume Samuel Cauman, The living museum. The experience of an art historian and museum director: Alexander Dorner, New York 1958, in Selearte, VII, 1959, 39, pp. 21-30; il tema è ampliato in Id., Arte, fare e vedere cit., pp. 89-91. La posizione di Ragghianti è critica nei confronti di Dorner e dunque della contaminazione fra fac-simile e originale
3 Carlo Ludovico Ragghianti, Arte, fare e vedere cit., p. 90.
4 Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti”, cit., p. 260.
5 Umberto Eco, Opera aperta cit., pp. 52-53.
6 Queste scelte ritornano nelle mostre degli Archizoom ad Orsanmichele (1969) e a Palazzo Strozzi: Roberto Gargiani, Archizoom, cit., pp. 145-146.
7 Lo Studio H è partner di Savioli anche nella mostra “L’oggetto moderno”.
8 Nel sottile slittamento dei piani pavimentali della mostra della Certosa si potrebbe trovare un labile riferimento a opere di Scarpa, ma l’orizzonte culturale appare completamente diverso: manca in Savioli la valorizzazione della preziosità materica, che è carattere distintivo dell’operare del maestro veneziano; l’astrazione creata da Scarpa intorno all’opera è distante dal dialogo dinamico e disincantato, se non estraniante e provocatorio, fra oggetto e spettatore alla base del progetto dell’architetto fiorentino: Manfredo Tafuri, “Il frammento, la «figura», il gioco. Carlo Scarpa e la cultura architettonica italiana”, in Francesco Dal Co, Giuseppe Mazzariol, Carlo Scarpa. 1906-1978, Milano, Electa, 2005 (prima ed. 1984), p. 81.
9 Archivio di Stato di Firenze, Archivio Savioli, Materiale relativo ai progetti, 187-190.
10 Giovanni Fanelli, scheda 100, in Leonardo Savioli, cit., p. 240; Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti”, cit., p. 258
11 Francesco Dal Co, “Mostrare, Allestire, Esporre”, in Sergio Polano (a cura di), Mostrare, cit., p. 11.
12 Sala della Casa, n. 146 “Stanza da letto”: La mostra di Firenze ai tempi di Dante cit., p. 124. Lo stesso procedimento caratterizza il “pannello” dedicato alla città nell’omonima Sala, desunto dall’affresco di Pietro Lorenzetti, Ingresso di Cristo in Gerusalemme, ad Assisi
13 Sam Hunter, “Neorealismo, Assemblage, Pop Art in America”, in L’arte moderna. Correnti contemporanee, vol. XIII, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1967, p. 123.14 Fabrizio Rossi Prodi, Carattere cit., p. 144.