Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli). Sala della città, particolare con uno dei “fotomontaggi” espositivi.
Il tema degli allestimenti museali, permanenti e temporanei, è riconosciuto dalla storiografia come un settore specifico della produzione artistica di una parte rilevante degli architetti italiani fra il quinto e il settimo decennio del Novecento, e trova protagonisti di primo piano in figure quali i BBPR, Ignazio Gardella, Luciano Baldessari, Franco Albini e soprattutto Carlo Scarpa1. Nei decenni precedenti il secondo conflitto mondiale si erano già stratificate molteplici esperienze che avevano catturato, restituito - e in parte anticipato – nella dimensione dell’evento temporaneo gli esiti e le elaborazioni della cultura architettonica più avanzata. Con la trasformazione e il rinnovamento del linguaggio della comunicazione e con la contaminazione delle arti e dei materiali, si apriva infatti un nuovo orizzonte per lo spazio ostensivo, e i semi gettati avrebbero germogliato nella stagione successiva moltiplicando, nella diversificazione del pensiero compositivo, le proposte e le soluzioni progettuali2.
Nell’architettura dei luoghi espostivi dell’Italia post-bellica sono esperite da un lato soluzioni pertinenti all’esplorazione delle qualità spaziali del luogo, solitamente edifici storici, con realizzazioni di grande interesse per le relazioni fra contenuto e contenitore che il progetto allestitivo materializza, evidenziando anche le complessità e le eventuali criticità dei siti stessi; dall’altro, sono esplicitate le diversificate riflessioni sulle modalità del ‘mostrare’, contaminate dalle risultanze del lungo lavorio teorico di alcuni storici dell’arte, nonché dalle proficue intersezioni con i linguaggi dell’arte contemporanea. Quest’ultime formulazioni confluiscono inoltre nell’esperienza particolare della progettazione dei dettagli3, cioè di quelle articolazioni che non rientrano nella categoria delle soluzioni tipizzate e richiedono dunque un peculiare approfondimento: la lettura di questi particolari può migliorare la messa a fuoco di alcuni temi nodali all’interno del pensiero compositivo del progettista.
Nell’orizzonte cronologico considerato, il progetto dell’allestimento, effimero e non, si pone dunque come percorso conoscitivo e restitutivo di vari contesti concettuali e materiali: dall’artigianato di qualità al mondo poliedrico della macchina e della tecnologia, dalle modalità di delineazione delle valenze spaziali del contenitore museale alla valorizzazione delle invarianti dell’edificio storico, enucleando pensieri e proposte non di rado concettualmente riconducili all’ambito di quella che viene definita “site-specific art”4. In una galassia di procedimenti e realizzazioni, i tre decenni che seguono il secondo conflitto mondiale si caratterizzano per il complesso intreccio del portato degli eventi espositivi e dei riallestimenti permanenti dei grandi musei italiani, con i primi che si offrono come laboratori per sperimentare nuove forme di ostensione e comunicazione, da selezionare e applicare poi nei secondi5.
La costruzione dello spazio espositivo temporaneo, inoltre, vive anche di dinamiche autonome rispetto al museo, legandosi direttamente al polimorfico mondo che ruota intorno ai concetti di “messa in scena”, di arredo, di ostensione/estensione degli oggetti6. In questo contesto, dunque, la definizione del palinsesto compositivo può presentarsi come una più libera manifestazione della poetica dell’architetto, non priva di caratteri propri della sperimentazione o del manifesto. Nell’ambito di tali esperienze, un ruolo di grande interesse si riconosce anche a Leonardo Savioli (1917–1982)7che accompagna alle proprie opere nel settore espositivo, l’anelito a una teorizzazione, e dunque un tentativo di sistematizzazione concettuale delle problematiche sottese all’ideazione del progetto di allestimento8. L’interesse dell’architetto s’inserisce in quadro unitario che raccoglie l’attività professionale e di docente universitario, e di cui fa parte anche la collaborazione con Giulio Carlo Argan e Carlo Ludovico Ragghianti9, nomi di rilievo nell’aggiornamento degli indirizzi della museografia italiana, se pur non sempre su posizioni comuni10.
Mostra la Casa Abitata (1965), Firenze, Palazzo Strozzi
Nell’exhibition design di Savioli inoltre si leggono in filigrana alcuni temi sviluppati poi, in maniera molto più dirompente e ubiquitaria, da un gruppo di allievi del suo corso che avrebbero segnato l’ambiente fiorentino e italiano della seconda metà degli anni Sessanta11. Fattore decisivo negli allestimenti di Savioli è infatti la sua nota sensibilità di pittore e grafico - che gli permette di sviluppare una particolare apertura verso le acquisizioni più avanzate dell’arte contemporanea internazionale. Il riferimento è alla pop art, l’optical art, la kinetic art, fino ai nuovi realismi americani e francesi: queste contaminazioni si ritrovano in particolare nella prima attività degli Archizoom12, gruppo di architetti formato anche da allievi di Savioli13. È Savioli stesso a citare, come riferimenti concettuali in questo settore del suo fare artistico, i nomi di Eduardo Paolozzi (1924-2005), Nicholas Schöffer (1912-1992), Jean Tinguely (1925-1991) e Victor Vasarely (1906-1997)14,tutti esponenti di rilievo di una stagione tendente, se pur in modo non univoco, a investigare un nuovo rapporto fra ‘oggetto’ e spettatore informato da una relazione tesa a sviluppare un comportamento integrativo e attivo dell’uno rispetto all’altro, e viceversa15. I modi di connessione fra osservatore e opera d’arte dal punto di vista della partecipazione emotiva e intellettuale, e della dialettica dinamica fra passato e presente, costituiscono il campo principale d’indagine e sperimentazione dell’opera di Savioli architetto degli spazi effimeri. Come è stato notato16, questo tratto distintivo dell’autore si intreccia con il portato delle riflessioni sedimentate da Umberto Eco nel volume Opera aperta (1962), dove è presentata una articolata e polisemica ricerca sull’idea di “apertura” dell’arte, proposto dalle poetiche contemporanee17. La pubblicazione del libro di Eco, che insegna alla Facoltà di Architettura di Firenze dal 1966, insieme all’esposizione degli artisti americani della pop art alla Biennale di Venezia del 1964 e alle esperienze didattico formative dei corsi di Leonardo Ricci e Leonardo Savioli, sono considerati fattori importanti per il rinnovamento dell’architettura italiana che ha inizio alla metà degli anni sessanta18.
Mostra dell’Oggetto Moderno, Firenze, Palazzo Strozzi, vista di una sala
Se i temi dicotomici sopraricordati – che l’architetto definisce spesso “cortocircuito” - rappresentano un carattere peculiare del modusoperandi di Savioli, si deve rilevare anche l’attenzione e la cura alla base dell’elaborazione del particolare tecnologico, declinato nella puntuale definizione progettuale ed esecutiva dei supporti espositivi, dei corpi illuminanti, del sistema dei percorsi e degli strumenti didattico-illustrativi: l’architettura dell’allestimento, attraverso tale puntuale analisi - pienamente coerente con il pensiero compositivo sotteso agli edifici che Savioli va progettando e realizzando19-, si offre come “sistema di particolari pertinenti”20, ovvero come un insieme congruente che contribuisce a chiarire la natura dell’architettura rispetto all’epoca e all’orizzonte culturale cui appartiene. Marco Dezzi Bardeschi a chiusura di un articolato saggio su Savioli del 1966, ha scritto: “un aspetto che resta da indagare utilmente e per il quale mi limito ad un semplice accenno è l’indiscutibile angolazione tecnologica della ricerca di Savioli intesa come istintivo fascino per la carica di formatività proprio del prodotto di officina, a qualunque livello esso appartenga”21. In questo versante, Savioli sembra interpretare in maniera personale una componente precipua del fare architettura di quella che è definita la Scuola fiorentina22, che viene a intrecciarsi nel suo caso ad archetipi autobiografici23.
Gli allestimenti, tutti fiorentini, di Savioli si collocano nell’arco di vent’anni, con un’accumulazione nella prima metà degli anni sessanta: se la “mostra della musica” (1950) e la “mostra delle armi da caccia” (1970) costituiscono gli estremi cronologici di quest’attività, nell’arco di tre anni l’architetto realizza la mostra dell’Oggetto moderno (1962), la mostra di Le Corbusier (1963), la mostra della Casa abitata (1965), con Michelucci come ordinatore e la mostra di Firenze ai tempi di Dante (1965) alla Certosa del Galluzzo (Firenze). L’esposizione dei gioielli creati dalla moglie Flora Wiechmann alla Strozzina (1963), come la personale del ceramista e scultore Guido Gambone a villa Salviati a Sesto (1971) si caratterizzano per una dimensione più intima dell’impaginazione allestitiva, che trasfigura nell’omaggio personale e partecipato.
Ogni mostra si distingue per collaborazioni di alto livello (Argan, Ragghianti, Michelucci) e presenta caratteri peculiari all’interno, tuttavia, di un’enunciazione di ordine teoretico e fattuale, organica e compiuta, che diviene inoltre strumento di verifica e di elaborazione di una metodologia interna al pensiero dell’architetto24. Per la centralità cronologica - anche nel contesto degli eventi più generali che segnano la cultura architettonica contemporanea - e la diversificazione dei contenuti della proposta progettuale (dall’insieme al dettaglio, dalle scelte materiche all’esplorazione delle qualità spaziali del contenitore rappresentato da un rilevante edificio storico), appare di grande interesse la mostra “Firenze ai tempi di Dante”, che mutua il titolo dal celebre volume di Robert Davidsohn (1929). L’esposizione della Certosa si distingue dalle altre curate da Savioli per la presenza di numerosissimi pezzi non in originale, circostanza ‘letta’ come elemento di debolezza della mostra25, ma che in realtà contribuisce ad accrescere il ruolo dell’allestimento nel palinsesto complessivo, e dunque ad evidenziare il pensiero compositivo dell’architetto che in questa dimensione ‘temporanea’ trova una efficace esplicitazione: si determinano qui infatti le condizioni per una piena contaminazione fra grafica, arte e architettura, oltre alla materializzazione di temi progettuali quali la scomposizione neoplastica che l’architetto va declinando nello stesso torno di anni nelle sue architetture, con esiti che raggiungono piena espressività nel caso dell’edificio ad appartamenti di via Piagentina a Firenze (1964).
Palatium degli Acciaioli alla Certosa del Galluzzo, Firenze.
Vista del corpo nord-orientale al piano terreno dopo i restauri (da Procacci, Morozzi 1966)
Il tempo, il luogo, gli attori
I centenari danteschi del XIX e del XX secolo hanno lasciato a Firenze tracce significative. Il primo, coincidente con lo spostamento della capitale del nuovo Stato unitario a Firenze (1865), vede mobilitata la città e numerose istituzioni. Il secondo centenario trova l’Italia, e Firenze in particolare, impegnate in estese celebrazioni. Sulla base della legge del 20 marzo 1964, n. 162 (Contributo straordinario dello Stato alle spese per le celebrazioni nazionali del VII centenario della nascita di Dante; costituzione del Comitato per le celebrazioni)26, sono membri di diritto del Comitato Nazionale il Ministro per la pubblica istruzione e i rappresentanti delle città di Firenze e di Ravenna, designati dai rispettivi Consigli comunali. La Legge nazionale del 1964 prevedeva di poter finanziare anche “iniziative dirette a garantire e a promuovere la conservazione delle cose di carattere storico e artistico connesse con la tradizione dantesca”. Il Ministero stanziava per le cospicue manifestazioni, previste in varie parti d’Italia, la consistente cifra di 300 milioni di lire. Gli eventi espositivi più importanti si tengono a Firenze e a Roma27. L’amministrazione comunale di Firenze si prepara alle celebrazioni dall’autunno del 1963, con un programma incardinato su tre eventi principali: un congresso internazionale e due mostre dedicate al poeta (alla Biblioteca Nazionale Centrale e alla Certosa del Galluzzo)28. Si forma un comitato fiorentino, presieduto dal professor Raffaello Ramat dell’Università di Firenze, già assessore alla cultura nell’ultima Giunta La Pira29, che comprende fra gli altri anche il Soprintendente alle Gallerie Ugo Procacci, e il Soprintendente ai Monumenti Guido Morozzi, oltre all’importante storico dell’arte Roberto Longhi e al Rettore dell’ateneo fiorentino, Giovangualberto Archi30.
Dal 1955 è aperto il cantiere di restauro del cosiddetto Palazzo degli Studi o Palazzo Acciaioli alla Certosa del Galluzzo31, guidato da Morozzi. La struttura della Certosa, oltre alla chiesa e agli ambienti destinati alla residenza della comunità religiosa, comprende infatti anche un grandioso complesso a “L” (il Palatium) voluto dallo stesso Niccolò Acciaiuoli (1310-1365) fondatore della struttura, e rimasto incompiuto alla morte del committente. L’edificio subisce nel corso dei secoli numerose trasformazioni e rifunzionalizzazioni, fino ai restauri novecenteschi della Soprintendenza.
I primi interventi si datano all’immediato dopoguerra, secondo un programma destinato a mutare progressivamente negli scopi e nei contenuti nel giro di pochi anni: nell’autunno 1960 si comunica al Ministero che la Soprintendenza fiorentina intende “eseguire le opere essenziali di restauro e sistemazione delle due suddette sale e degli accessi … anche allo scopo di destinare successivamente le sale stesse alla formazione di una nuova pinacoteca per l’esposizione delle numerose opere d’arte esistenti e mal collocate nel monastero; particolarmente i pregevolissimi affreschi del Pontormo che alcuni anni or sono furono rimossi dal chiostro grande per ragioni di conservazione”32. Gli interventi a stampa di Guido Morozzi33, riguardanti le opere compiute nella vastissima compagine trecentesca, sono animati da un misto di pacato orgoglio e didascalica retorica, il cui grado di sottile reticenza si coglie confrontando le descrizioni fornite dall’architetto con la documentazione contabile e iconografica relativa alle opere effettivamente realizzate sotto la sua direzione34. Tali campagne, condotte secondo principi vicini al “restauro critico” ma spesso convergenti verso il “restauro di ripristino”35, portano alla meritoria eliminazione di un solaio che divideva il piano terra all’altezza dei capitelli dei pilastri della sala meridionale, ma anche alla ridefinizione delle aperture e degli accessi, in alcuni casi ex-novo. Ne risultano due ampi vani al primo piano con capriate a vista, e quattro grandi stanze al piano terra, due delle quali diaframmate da un ampio varco, cui si aggiunge un corpo longitudinale con massicci pilastri centrali e volte a crociera. Negli ambienti del piano terra la rarefazione dello spazio così ‘restaurato’ trova una minima ridefinizione nell’articolazione delle vaste volte a crociera costolonate, mostrate nella scarnificazione del mattone a faccia vista, e nelle monofore archiacute che scandiscono le pareti.
Sul finire del 1964 i lavori vanno terminando e sembra, dunque, un’occasione alquanto propizia fare del piano terreno del Palatium la sede della mostra fiorentina, che può contare su un budget relativamente consistente, soprattutto in relazione all’ambizioso progetto didattico-illustrativo che informa la mostra: 5.000.000 di lire, di cui una parte cospicua viene corrisposta all’architetto36.
Di grande interesse appare la scelta attuata dalla Soprintendenza e dal comitato di affidare l’allestimento a una personalità per cui era certa l’impossibilità di cadute mimetiche, rischio più che reale in un’esposizione di tal soggetto e in un luogo così carico di storia. L’ambiente istituzionale fiorentino appare del resto, da tempo, sensibile a connubi di questo genere, come la collaborazione di Michelucci, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, con gli Uffizi può ben esemplificare37: la mostra di Giotto e la sistemazione attuata dallo stesso Michelucci con Gardella e Scarpa due decenni dopo di alcune sale del Museo, sono esperienze citate espressamente dallo stesso Savioli, nei suoi scritti e nella propria architettura38. Si rivela nell’Istituzione fiorentina preposta alla conservazione e alla tutela una sensibilità - non certo estranea alla coeva cultura italiana - per il dialogo fra antico e contemporaneità che segna anche gli interventi degli Archizoom a Orsanmichele (1967) e nel Duomo fiorentino (sistemazione degli scavi archeologici di Santa Reparata sotto il pavimento, 1968), interventi questi ultimi caratterizzati da un’originale espressività: il riconoscimento delle valenze innovative e dei contenuti di tali progetti non deve essere inficiato dall’ombra dell’agevolazione familistica che grava su questi cantieri, posizione sostenuta in prima persona dallo stesso Savioli in sede giudiziaria39.
Leonardo Savioli, Allestimento della mostra Firenze ai tempi di Dante, (Archivio di Stato di Firenze, Fondo Savioli).
Sala della vita pubblica e privata
La mostra dantesca ripresenta inoltre il binomio soprintendenza-architetto progettista dell’allestimento, proposto come connessione ideale nella rassegna alla Triennale di Milano del 1957 sui nuovi allestimenti permanenti di importanti realtà museali italiane40.
Alla Certosa del Galluzzo si prospetta per Savioli la possibilità di esplorare – attraverso il progetto dell’allestimento temporaneo - le caratteristiche del luogo e la sua vocazione a spazio museale permanente41, secondo una dimensione concettuale propria di altri luoghi e di altri protagonisti a lui contemporanei, in primis Carlo Scarpa a Castelvecchio42. Il sito, di per se stesso significante nella stratificazione storica e nel rapporto con il paesaggio circostante, diviene un elemento imprescindibile nell’equazione progettuale, declinando il pensiero del progetto proprio dell’elaborazione site-specific43.
Il progetto espositivo, in questo sito da risignificare e con un’identità da ridefinire nei suoi elementi spaziali, compositivi, distributivi e materici diventa dunque un vero e proprio atto artistico performativo: la performance infatti si rivela là dove le due componenti – le modalità del mostrare e le impressioni che il luogo e gli spettatori restituiscono in un complesso gioco di specchi - emergono dal compimento del suo accadere.
Note:
Questo saggio prende le mosse da ricerche condotte in concomitanza con l’incarico di inventariazione analitica dell’Archivio Savioli, commissionato a chi scrive dalla Soprintendenza Archivistica per la Toscana e dall’Archivio di Stato di Firenze, nonché dagli studi nell’ambito delle esercitazioni svolte come frequentante nei corsi di Storia dell’Arte contemporanea (prof. Enrico Crispolti) e Allestimento e museografia (prof. Amerigo Restucci) della Scuola di Specializzazione in Archeologia e Storia dell’Arte, Università degli Studi di Siena.
1 Paolo Fossati, Il design in Italia. 1945-1972, Torino, Einaudi 1972; Ezio Bonfanti, Mario Porta, Citta, museo e architettura. Il Gruppo BBPR nella cultura architettonica (1932-1970), Firenze, Vallecchi, 1973; Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana. 1944-1985, Torino, Einaudi 1982, pp. 65-138; Sergio Polano (a cura di), Mostrare. L’allestimento in Italia degli anni Venti agli anni Ottanta, Milano 2000 (prima ed. Milano 1988), Milano, Lybra Immagine 2000; Paolo Morello, “Opere e modelli storiografici”, in Francesco Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il secondo Novecento, Milano, Electa, 1997, pp. 392-418; Sergio Polano, “L’arte dell’allestimento temporaneo. Mostrare italiano”, in ivi, pp. 418-429; Luca Basso Peressut, Il Museo Moderno. Architettura e museografia da Perret a Kahn, Edizione Lybra Immagine 2005, in particolare pp. 201-206.
2 Enrico Crispolti, “Il Futurismo negli anni Trenta”, in Nadine Bortolotti (a cura di), Gli annitrenta: arte e cultura in Italia, catalogo della mostra (Milano, 1982), Milano, Comune di Milano 1982, pp. 178-180 e Anty Pansera, “Le Triennali”, in ivi, pp. 311-324; Paolo Morello, “Esposizioni e mostre: 1932-36”, in Giorgio Ciucci, Giorgio Muratore (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento, Milano, Electa 2004, pp. 306-323; Orietta Lanzarini, “«Mi attrae usa sconvolgermi insegnandomi»: gli allestimenti di Luigi Moretti”, in Bruno Reichlin, Letizia Tedeschi (a cura di), Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, catalogo delle mostre (Roma 2010), Milano, Electa, 2010, pp. 239-240.
3 Enzo Legnante, Antonio Laurìa, L’architettura nei dettagli, Firenze, Alinea 1988, p. 17.
4 Per la definizione concettuale di queste tematiche dell’arte degli anni Sessanta-Settanta, soprattutto per il contesto americano, Miwon Kwon, “One Place after Another: Notes on Site Specificity, in October, LXXX (Spring, 1997), pp. 85-110; Miwon Kwon, One Place after Another: Site-Specific Art and Locational Identity, Cambridge, Massachusetts-London, MIT Press, 2004.
5 Marco Mulazzani, “Lo spazio interno come spazio architettato”, in Antonella Huber, Il Museo italiano, Milano, Lybra Immagine, 1997, pp. 59-75: 63.
6 Sergio Polano, “L’arte dell’allestimento temporaneo. Mostrario italiano”, in Francesco Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura, cit., p. 430.
7 Leonardo Savioli, Firenze, Edizioni Centro Proposte, 1966: schede nn. 82-84, n. 100-101 a cura di Giovanni Fanelli; Leonardo Savioli grafico e architetto, catalogo della mostra (Faenza, 1982), Firenze, Centro Di, 1982. Le mostre di Savioli sono ricordate nella rassegna proposta in Sergio Polano (a cura di), Mostrare, cit.; cfr. anche Alessandro Poli, “Il divenire del segno nell’idea di spazio di Leonardo Savioli: progetti architettonici e allestimenti espositivi”, in Leonardo Savioli: il segno generatore di forma-spazio, catalogo della mostra (Firenze, 1995), Città di Castello, Edimond, 1995, pp. 85-146: 86-88. Nella storiografia più recente dedicata a Savioli, si ricordano le sintetiche osservazioni contenute nelle schede presenti nel volume di Massimiliano Nocchi, Leonardo Savioli. Allestire, arredare, abitare, Firenze, Alinea, 2008, pp. 88 e sgg.
8 Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti. Alcune esperienze dal 1962 al 1971”, in Leonardo Savioli, Danilo Santi, Problemi di architettura contemporanea. L’architettura delle Gallerie d’Arte Moderna, Firenze, Giglio & Garisenda, 1972, pp. 258-261.
9 Argan scrive la premessa al catalogo della mostra “L’oggetto moderno” (1962) e collabora al corso di Savioli all’Università di Firenze (Leonardo Savioli et al., Ipotesi di spazio, Firenze, Giglio & Garisenda, 1972); presenta l’opera di Savioli nel volume del 1966: Leonardo Savioli, cit.; scrive anche un saggio nel volume di Savioli e Santi: Giulio Carlo Argan, “Progettazione di un museo d’Arte moderna: rapporto tra museo e allestimento, in Leonardo Savioli, Danilo Santi, Problemi di architettura contemporanea, cit., pp. 32-35. Ragghianti è l’ordinatore della mostra dedicata a Le Corbusier (1963) e accompagna Savioli a Parigi alla mostra monografica sull’architetto svizzero l’anno precedente. Ragghianti dirige per molti anni “La Strozzina”, associazione culturale fiorentina, che organizza le mostre da lui ideate e promosse a Palazzo Strozzi, e dedicate a Frank Lloyd Wright (1951), Le Corbusier (1963), Alvar Aalto (1966). Per questi aspetti Augusto Rossari, “Ragghianti e gli architetti”, in Luk, n.s., 16 (2010), pp. 114-115.
10 Per un rinnovamento della concezione del museo nel dibattito culturale italiano: Marisa Dalai Emiliani, “Musei della ricostruzione in Italia, tra disfatta e rivincita della storia”, in Licisco Magagnato (a cura di), Carlo Scarpa a Castelvecchio, Milano, Edizioni Comunità, 1982, pp. 149-170; Carlo Ludovico Ragghianti, Arte, Fare e vedere, [prima ed. 1973], Firenze, UIA, 1990; Paolo Morello, “La museografia”, cit.; Luca Basso Peressut, Il museo moderno?, cit., pp. 207- 212; Antonella Gioli, “Ragghianti, i musei e la museologia”, Predella, X, (2010), 28, http://predella.arte.unipi.it (2012)???.
11 Fabrizio Rossi Prodi, Carattere dell’architettura toscana, Officina Edizioni, Roma, 2003, p. 20.
12 Paolo Deganello, “Narrate uomini la vostra storia”, in http://sites.google.com/site/paolodeganello/articoli : (2012).
13 Roberto Gargiani, Archizoom associati. 1966-1974. Dall’onda pop alla superficie neutra, Milano, Electa, 2007, p. 13, 101. Deganello in particolare si laurea con Savioli.
14 Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti”, cit., p. 260. Nel gennaio del 1965 esce l’articolo di Lara Vinca Masina, “Arte programmata”, Domus, 422 (1965), pp. 40-48 dove vengono commentate opere e protagonisti della opticalart, fra cui Tinguely e Schöffer, oltre a citare esempi di declinazione del fenomeno artistico nell’architettura. La vivacità dell’ambiente culturale fiorentino è ricordata anche in François Burkhardt, “Le avanguardie fiorentine dell’anni sessanta e settanta”, in Ezio Godoli (a cura di), Architetture del Novecento. La Toscana, Firenze, Ed. Polistampa, 2001, pp. 139-142.
15 Francesco Poli, “Arte e ambiente”, in Francesco Poli (a cura di), Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi, Milano, Electa 2007 (prima ed. 2005), 96-121.
16 Luigi Prestinenza Puglisi, This is Tomorrow. Avanguardie e architettura contemporanea, Torino: Testo & immagine, 1999, pp. 113-115; Marie Theres Stauffer, Figurationen des Utopischen, Deutscher Kunst Verlag, Berlin – München, 2008, pp. 127-135. 17 Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
18 Luigi Prestinenza Puglisi, This is Tomorrow, cit., p. 116; p. 125; Gabriele Corsani, “Premessa”, in Marco Bini, Gabriele Corsani (a cura di), La Facoltà di architettura di Firenze. Fra tradizione e cambiamento, atti del convegno (Firenze, 29-30 aprile 2004), Firenze, Firenze University Press, 2007, p. XIX. Un ulteriore fattore di veicolazione delle nuove istanze delle esperienze artistiche più avanzate degli anni Cinquanta, con particolare riguardo all’Informale, è rappresentato dalla rivista “Spazio” (1950-53) e dall’attività dell’omonima galleria romana, diretta da Luigi Moretti (Letizia Tedeschi, “Algoritmie spaziali. Gli artisti, la rivista “Spazio” e Luigi Moretti, 1950-1953”, in Bruno Reichlin, Letizia Tedeschi (a cura di), Razionalismo e trasgressività, cit., pp. 137-178). L’architetto è inoltre presente alla mostra “La Casa Abitata” (1965) con una ricostruzione del suo studio dove convivevano esempi di arte barocca e opere contemporaneein una sistemazione che suscita un grande interesse nei visitatori: Alessandra Muntoni, “Luigi Moretti nella storia e nella critica”, in Corrado Bozzoni, Daniela Fonti, Alessandra Muntoni (a cura di), Luigi Moretti architetto del Novecento, atti del convegno (Roma, 25-26 settembre 2009), Roma, Gangemi, 2009, pp. 43-60: 53; Orietta Lanzarini, “«Mi attrae usa sconvolgermi insegnandomi»: gli allestimenti di Luigi Moretti”, in Bruno Reichlin, Letizia Tedeschi (a cura di), Razionalismo e trasgressività, cit., p. 249. L’Informale rappresenta un tema che caratterizza anche la ricerca artistica di Savioli, alimentata dai rapporti epistolari con Vedova, soprattutto negli anni Cinquanta: Eleonora Tolu, “Ripercorrendo la vicenda umana e artistica di Leonardo Savioli”, in Claudio Paolini, Eleonora Tolu (a cura di), “Registrare l’esistenza”. La pittura e il disegno di Leonardo Savioli, catalogo della mostra (Monsummano 2010), Firenze, Ed. Polistampa, 2010, pp. 60-61.
19 Federico Bellini, “Toscana, Emilia, Romagna, Marche, in Francesco Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura, cit., pp. 151-152.
20 Pier Angelo Cetica, “Introduzione”, in Enzo Legnante, Antonio Laurìa, L’architettura, cit., 1988, p. 12.
21 Marco Dezzi Bardeschi, “Leonardo Savioli, una metodologia di progettazione”, Marcatrè, (1966), p. 71.
22 Fabrizio Rossi Prodi, Carattere, cit., pp. 56-57.
23 In particolare il mondo dei treni e delle locomotive, essendo il padre un disegnatore meccanico delle ferrovie. Devo questa indicazione a Paolo Breschi, allievo e amico di Savioli. Si veda anche Massimiliano Nocchi, Leonardo Savioli, cit.
24 Lara Vinca Masini in Leonardo Savioli, cit., p. XIII.
25 Giovanni Fanelli, scheda 100, in Leonardo Savioli, cit., p. 240.
26 G.U. n.89 del 10-4-1964.
27 La mostra romana, a Palazzo Venezia, e la mostra fiorentina sono recensite in parallelo da Angiolodomenico Pica: Id., “Settecent’anni dalla nascita di Dante: due mostre”, Domus, (1966), 435, p. 55. La mostra romana è opera di Peppino Piccolo e Fabrizio Vico, e l’allestimento è giudicato da Pica “abbastanza corrente nella sua accuratissima eleganza”, ma al contempo viene elogiata “la straordinaria efficacia raggiunta mediante espressioni plastico-pittoriche”.
28 Archivio Storico Comunale di Firenze, Delibere della Giunta, anno 1964, n. 585; Mostra di codici e edizioni dantesche, (Firenze 1965), Firenze, Sandron 1965.
29 Giulio Conticelli, Lorenzo Artusi, Bibliografia degli scritti di Giorgio La Pira, Firenze, Fondazione Giorgio La Pira, 1998.
30 L’elenco dei membri del Comitato fiorentino si trova nel volume Mostra diFirenze ai tempi di Dante 1965, catalogo della mostra, Firenze, Giunti Barbera, 1966. Sulla mostra cfr. anche: Il Ministro Gui inaugura stamani una suggestiva mostra della Firenze di Dante, in Il Giornale del Mattino, 10 giugno 1965; Il Ministro Gui alla mostra della città di Dante, in La Nazione, 11 giugno 1965; Inaugurata la mostra di Dante, in L’Unità, 11 giugno 1965; Lara Vinca Masini, “Mostra Firenze ai tempi di Dante”, Marcatrè, (1965), 16-18, pp. 216-217; Fernando Concedda, “Un’immagine vera di Firenze ai tempi di Dante”, in Il Giornale del Mattino, 11 giugno 1965; Lara Vinca Masini, “Firenze ai tempi di Dante”, in La Biennale 1965, 57-58, pp. 85-86; “Les exposition à l’étrange”, Architecture d’Au Jourd’hui, (1966), 435, p. 55; Maria Bottero, “L. Savioli”, World Architecture, (1966), 3, pp. 182-185. Leonardo Savioli grafico e architetto cit., pp. 14-15, 52-55.
31 Pietro Ruschi, Scheda 11 [“La Certosa presso Firenze”], in Archivi dell’aristocrazia fiorentina, catalogo della mostra (Firenze, 1989), Firenze, Acta, 1989, pp. 31-33.
32 Guido Morozzi e Ugo Procacci, 2 novembre 1960: relazione di accompagnamento alla richiesta di un ulteriore finanziamento per le opere alla Certosa: Soprintendenza per i Beni Architettonici di Firenze, Archivio delle Perizie, anno 1960, c.n.n.
33 Ugo Procacci, Guido Morozzi, “Il Palazzo degli Studi nella Certosa del Galluzzo”, in Bollettino degli Ingegneri, 273, 1966, pp.1-12; Guido Morozzi, Interventi di Restauro, Firenze, Bonechi 1979.
34 Soprintendenza per i Beni Architettonici di Firenze, Archivio delle Perizie, anni 1959-1965. Si evidenzia un cambio di progetto che, da manutenzione straordinaria, diviene vero e proprio intervento di ripristino come già indicato da Pietro Ruschi, vedi nota seguente.
35 Pietro Ruschi, scheda 11, cit., p. 32.
36 Archivio Storico Comunale di Firenze, Sezione Belle Arti, anno 1965.
37 Roberto Duilio, “Allestimento della mostra di Giotto agli Uffizi, 1937”, e “Allestimento di alcune sale degli Uffizi 1953-60,” in Claudia Conforti, Roberto Duilio, Marzia Marandola, Giovanni Michelucci (1881-1990), Milano, Electa, 2006, p. 165, 225. Il contesto in cui nasce e si sviluppa la mostra del 1937 è ricostruito in Alessio Monciatti, Alle origini dell’arte nostra. La mostra giottesca del 1937a Firenze, Milano, Il Saggiatore, 2010, in particolare pp. 38-86.
38 Si tratta di riferimenti visivi puntuali (vedi oltre) e riferimenti teorici: “Di fronte al Cristo di Cimabue ci si inginocchiava (e fecero bene Gardella, Michelucci e Scarpa, nella prima sala degli Uffizi, a disporlo inclinato su un gradino, quasi a proporne un ambiente e un gesto religioso)”: Leonardo Savioli, “Il problema degli allestimenti”, cit., pp. 258-259.
39 Roberto Gargiani, Archizoom cit., p. 101. Fanno parte dell’Archizoom i figli del Soprintedente Morozzi. Nel processo che si tiene nel 1975 per presunti illeciti nella gestione del cantiere di Orsanmichele, Savioli è chiamato insieme a Domenico Cardini a deporre ed esprime stima nei confronti dei giovani allievi: ivi p. 249.
40 “Mostra di Museologia”, in Agnolodomenico Pica (a cura di), Undicesima Triennale, catalogo della mostra (Milano 1957), Milano, Tip. Crespi, 1957, pp. 49-59. Tale evidenza è sottolineata in Paolo Morello, “Museografia”, cit., nota 13, p. 414. 41 In questo senso anche le osservazioni di Lara Vinca Masini, “Mostra”, cit.
42 Marisa Dalai Emiliani, “Musei della ricostruzione”, cit.; Giacomo Pirazzoli, Site Specific Museum. One, Pistoia, Gli Ori, 2011, pp. 74-75.
43 Nella peculiare soluzione compositiva concepita in stretta relazione con il luogo si dispiega la poetica della site-specific art.