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La morte è fatta a scale

04 Marzo 2015

Dopo una vita - brevissima o lunghissima che sia - vissuta alla scala dell’architettura, è possibile per chi lo desidera scegliere di morire alla scala del design.
Il tema dell’esalazione dell’anima dal corpo è quanto meno spinoso e la decisione su cosa fare delle spoglie di chi è mancato non è mai chiaro se vada presa nel rispetto di chi sopravvive al defunto, delle volontà del defunto stesso o delegata ai dettami di un credo spesso negletto cui ci si appella per disperazione o circostanza nel momento del trapasso.
Per un credente convinto quella appena definita come “scala della propria morte” è  già indicata dalla dottrina che professa, ma un ateo convinto, un ambientalista, un moderno epicureo, un nichilista, un egocentrico, un uomo che ha vergogna di sé o qualunque individuo dentro cui alberghino un Foscolo e un Pindemonte che non riescono ad accordarsi sulla funzione che la sua tomba debba avere per i vivi, come scelgono di far trascorrere l’eternità ai loro resti?
Senza la minima intenzione di apporre ad alcuno qualche etichetta generalista come quelle sopra enunciate, la domanda è stata girata direttamente agli autori di una serie di opere di arte funeraria. I lavori scelti si dividono tra pezzi unici, tirature limitate e prodotti industriali, ma sono tutti accomunati dalla presenza di una forte componente di significato alla base del progetto.


ROSSANO SALVATERRA

Rossano Salvaterra, artista e curatore indipendente (con Lara Marangoni)  porta un cognome che sembra contenere un omen molto chiaro . Forse salvaguardare la risorsa collettiva dello spazio calpestabile è veramente ciò che ha animato la sua ricerca artistica o forse questo archetipo di casa per l’eternità porta con sé un altro messaggio.

Rossano Salvaterra, perché dunque morire alla  scala del design?
RS: «Essere o non essere design?
L’oggetto è lo spazio dell'io che si trasforma.
Guardare fuori da un luogo sacro e spirituale come il cimitero e sacralizzare definitivamente la propria casa è decisamente moderno.
La casa è diventata il luogo sacro dell’individuo e quando osserviamo un’urna non ci fermiamo ad uno sguardo di superficie, ma guardiamo al di là dell’oggetto e della sua forma.
Non ci si limita alla superficie o al materiale utilizzato, ma è il pensiero che si fa oggetto.
Nel design, salvo pochi casi e sicuramente in quantità infinitesimali rispetto al numero di oggetti proposti, non ci si ricorda di chi li ha disegnati, ma solo dell'oggetto in sé: ecco perché dunque morire alla scala del design ci aiuta a guardare più in piccolo e a rimanere con lo sguardo verso un punto fisso. L'ultimo.
Spostare il proprio io tutto dentro un unico oggetto è l'ultima speranza di non cadere nell'oblio del post mortem.»

Chi sceglierebbe quest’urna?
RS: «La scelta di un urna è un momento che capita poche volte nella vita ed è come comprare una casa che deve essere il più possibile vicina alle proprie possibilità, anche estetiche.
L’urna b_urn la sceglie chi non ha necessità o esigenze estetiche particolari, riflette un archetipo e quindi è di tutti.
Tutto il mio lavoro artistico e curatoriale è incentrato su questo.
Chi mi dice che l'ho progettata io? Non è riconoscibile come mia ed è libera di essere a casa di chiunque e quindi la casa di tutti.»

Lei la userebbe per se stesso?
RS: «È l' unica urna che ho concepito e ad oggi  l'unico desiderio che ho è che se la persona che mi sta a fianco vivrà più di me spero almeno conservi quest’oggetto mantenendo vivo il ricordo di chi l’ha creato, almeno per il tempo che ritiene utile e necessario a se stessa.
Il resto è la vita che continua anche senza di noi.
Epitaffio: La morte è l'ultima cosa bella che ti può capitare nella vita».



ARMIN BLASBICHLER



I lettori di Turris Babel già conoscono Armin Blasbichler e, almeno in parte, il suo lavoro. In Blasbichler colpisce un approccio trasversale alle arti, tanto intriso di progettualità e forza comunicativa da poterlo disinvoltamente assimilare di volta in volta ad un architetto, un grafico o  un communication designer a seconda del progetto e della lettura che se ne vuole dare.  
Just Coughin è definibile come un progetto di re-design, eppure lo spazio richiesto da una simile sepoltura è tanto maggiore rispetto a una normale inumazione da indurre a pensare che possa ospitare congiuntamente due persone. Qual è la scala precisa di questa scelta di morte?
AB: «Ammetto che non mi intendo del settore mortuario, né di bare; ci sono cascato dentro per caso. Mi spiego: qualche mese fa mi capitava tra le mani la locandina funebre di mio zio. Mi ricordava che era un falegname di bare, mestiere ormai scomparso. Scomparso come lui, improvvisamente alla giovane età di 42 anni a causa di un infarto. Lo zio portava avanti il mestiere di suo padre, che all’epoca girò l’intera provincia senza mezzi motorizzati per vendere le sue bare. E come se non bastasse leggevo la locandina proprio in quella stanza dove morì lo zio, alla stessa età che aveva nel momento della sua scomparsa ,nella sua casa dove adesso abito io. Rendendomi conto di tutto questo, sentivo l’obbligo di produrre una bara anch’io, almeno una. Questa è la scala.
Comunque è di rilievo che praticamente ognuno che la vede rimprovera il consumo di spazio, in parte anche la scarsa maneggevolezza. Con le braccia allargate la stesura del corpo del defunto assume la posizione di colui che fu crocifisso diventando così un alleato spirituale e nello stesso momento marca la finitezza del primato dell’uomo vitruviano. La disposizione efficiente e ragionevole di un cofano funebre interessa al sindaco o a chi gestisce un cimitero. A coloro legati emotivamente al defunto interessa di più l’efficacia dell’ultima dimora terrestre del familiare».

Chi potrebbe scegliere la tua opera di arte funeraria per se stesso?
AB: «Non ho idea, ma probabilmente non un musulmano, peccato. Il lavoro non si avvale di uno scopo utilitaristico preciso. Certo, si nutre di un concetto di trapasso. In questo riguardo la vedo più come un’imbarcazione che una bara».

Lei la sceglierebbe per se stesso?
AB: «Non penso a queste cose».


ANDREA SALVATORI




Andrea Salvatori, artista Faentino di nascita e formazione, conduce attraverso la ceramica una ricerca audacissima e mai banale sulla dialettica tra il significato e il significante degli oggetti. La rara abilità tecnica è lo strumento con cui scardina e riassembla la grammatica delle cose prima di restituirle, trasmutate, al mondo  dell’immanente. Come se fossero sempre state tali.

Perché morire alla  scala del design?
AS: «Per risponderti cito, naturalmente non a memoria, un brano del manifesto del movimento spazialista:
 "...l' opera d'arte è distrutta dal tempo.
quando, poi, nel rogo finale dell' universo , anche il tempo e lo spazio non esisteranno più,
 non resterà memoria dei monumenti innalzati dall' uomo,
sebbene non un solo capello della sua fronte si sarà perduto.
ma non intendiamo abolire l' arte del passato o fermare la vita: vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e
la scultura dalla sua campana di vetro.
[…] Abbandoniamo la pratica delle forme d'arte conosciuta
abbordiamo lo sviluppo di un arte basata sulla unità del tempo e dello spazio".
Primo Manifesto Spaziale  1947»

 


Chi sceglierebbe quest’urna?
AS: «Non dico per forza un artista, ma certamente qualcuno che condivide con me un approccio estetizzante alla vita. L'estetica non solo nell' opera d' arte ,  ma in tutta la vita. Vorrem mica quindi escluder la morte? Per il resto la scala del monumento in sé ribadisco che conta poco. Conta il ricordo lasciato tramite le nostre opere:
"La Beatitudine, però, vale anche per tutti coloro che dormono […] essi sono beati perché dopo la morte si riposeranno […] dalle fatiche delle sofferenze terrene.  Nel riposo li accompagneranno le loro Opere,..."
Apocalisse di Giovanni ( Mt. 25,31 sgg ) »

Lei la userebbe per te stesso?
AS: «rendendola  scultorea ,
rendendola sapiente di forma
l' urna per le mie ceneri , per le vostre ceneri .
tutti dovrebbero provarla ,
tutti dovrebbero averne una sul comodino,
 evergreen sotto ogni punto di vista ,
 di forma naturale ,di colore e materiale  universalmente  irrinunciabile .
io ho già scelto il mio modello ,
per tutti Voi che avete  forte gusto estetico ,
per coloro che voglion uscire dalla massa
per chi vuole affrontare comodamente l' ultimo viaggio ,
e magari nemmen l' ultimo».


ANDRÉ CHABOT



André Chabot, altro artista la cui fama ha da tempo valicato i confini nazionali (francesi) e quelli europei, ha imperniato la sua intera ricerca di fotografo, giornalista e costruttore di monumenti sulla morte come forma d’arte e con locuzione francese si autodefinisce Promeneur nécropolitain.
Chabot è per antonomasia l’artista della morte. Ha progettato monumenti funebri grandissimi e piccolissimi, dal carattere smaccatamente intimista talvolta e apertamente pubblico talaltra, talvolta ironici fino a una salubre irriverenza e sempre pezzi unici.

Chabot, esiste una scala più appropriata per il trapasso?
AC: «La morte è inevitabile e l’essere umano non ha alcuna soluzione per combatterla. Se il corpo è deperibile, l’uomo può “prolungarsi” lasciando alcune tracce al fine di non sparire totalmente. E’ specialmente quello che fanno gli artisti o gli scrittori lasciando le loro opere. Il monumento funerario è uno dei mezzi di cui dispone l’uomo per far perpetuare il suo ricordo. Sono in effetti i cimiteri che più ci hanno lasciato informazioni riguardo alle civiltà precedenti».



Chi sono i suoi committenti?
AC: «Le persone o istituzioni che mi chiedono di realizzare un monumento funerario per loro stessi o per un loro familiare desiderano prima di tutto sfuggire alla standardizzazione dei cimiteri contemporanei che troppo spesso non sono altro che un parcheggio anonimo e monotono che ripete gli stessi modelli di tombe industrializzate. Credo che il loro pensiero sia la ricerca dell’originalità e dell’espressione della loro propria individualità. Il monumento non deve tradire ma esprimere la loro personalità unica».

Intende diventare anche committente di se stesso?
AC: «Per quasi quarant’anni, ho trascorso la mia vita come artista, fotografo, autore e passeggiatore necropolitano. Seguito logico di tutti questi anni, dopo aver creato in particolare al cimitero Père Lachaise di Parigi monumenti funerari per committenti privati, ho appena realizzato in questo stesso cimitero la mia propria tomba. Ho acquistato una cappella abbandonata del 1850, l’ho fatta restaurare e ci ho installato un insieme scultoreo simbolico. Due piccole bare realizzate in pietra, sorreggono in piedi un libro sul quale è appoggiata una macchina fotografica in granito nero, replica esatta della mia macchina fotografica personale. Le due bare rappresentano la mia compagna e me stesso, il libro rappresenta la ventina di libri di cui sono l’autore e la macchina fotografica simbolizza il mio principale strumento di lavoro ed i miei archivi fotografici (più di 175 000 fotografie ad oggi). Sull’architrave della cappella è incisa la scritta : LA MEMORIA NECROPOLITANA, cioè il nome dell’associazione creata, assieme alla mia compagna Anne Fuard, per contribuire, attraverso l’immagine, alla salvaguardia del patrimonio funerario. Questo monumento di eternità è una specie di conclusione della mia carriera ed è destinato a “prolungarmi” dopo la mia morte.
Le guide di questo cimitero-museo sono avvisate».
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Nota: * La traduzione dal francese delle risposte di André Chabot è a cura della dott.ssa Francesca Colaneri


HARRY TRIMBLE E PATRICK STEVENSON-KEATING



Harry Trimble e Patrick Stevenson-Keating sono due bravi designer inglesi che hanno fatto squadra per progettare un dispositivo funerario col quale si sono piazzati terzi nel concorso “design for death” recentemente bandito dal portale designboom.com. I due giovani britannici condividono un approccio decisamente cross-mediale ed esplorativo con una forte matrice scientifica a connotare in particolare le sperimentazioni di Stevenson-Keating.

A che scala ci consente di morire I wish to be rain?
HT e PSK: «Il nostro progetto “I wish to be rain” consente di intraprendere un cammino fatto di salti di scala, da quella dell’essere umano, alla più minuscola fino alla più vasta che si possa immaginare. Moriamo  tutti a scala umana, ma la decisione di farci cremare implica una riduzione alla scala della polvere e delle particella. Il dispositivo di nostra invenzione trasforma chimicamente il residuo della cremazione in pioggia; questo consente due ulteriori passaggi di scala. Dapprima quella delle nuvole, in cui il vapore acqueo si condensa attorno alle ceneri precipitandole nuovamente al suolo sotto forma di pioggia; poi se la pioggia cade nei posti giusti si ridiventa parte del tutto sotto forma di fiumi, laghi o addirittura oceani. Qualcosa che da vivi è non ci si può certo immaginare di fare».

 



Chi pensate che potrebbe scegliere quest’urna per sé?
HT e PSK: «Immaginiamo a qualcuno che ami il simbolismo, ma che non abbia un forte credo religioso. Forse a scienziati ed altri che subiscono il fascino degli spettacoli della natura e sentono il desiderio di essere loro più vicini».

La scegliereste per voi stessi?
HT e PSK: «Siamo entrambi molto curiosi di capire come il design possa aiutare la morte ad essere un processo positive. In molti modi questo progetto testimonia delle ambizioni personali che riponiamo nelle morti di noi stessi».



ENZO PASCUAL E PIERRE RIVIÉRE




Enzo Pascual e Pierre Riviére, francesi, sono i vincitori del concorso Design for Death. Anche il loro progetto, per quanto sia assolutamente da definirsi un progetto di design nel senso più ampio e nobile del termine, contempla una pluralità di scale. Tanto che vorrebbero applicarlo come modello per una sorta di cimitero monumentale (ibridato però con un boschetto). I due contenitori biodegradabili consentono ad un albero dalla valenza totemica di crescere nutrendosi dei processi de compositivi della salma stessa.

Da quale scala avete cominciato a ragionare per questo progetto?
EP e PR: «Da quella più sociale possibile: è scontato che i primi a scegliere Emergence come soluzione per il loro riposo eterno saranno ambientalisti, hippie ed eventualmente nazioni e municipalità preoccupate per il futuro delle loro risorse di suolo.
Ma Emergence è stato disegnato con in mente le persone che hanno un forte senso di appartenenza alla natura. Consente a queste persone di fare ritorno alla natura in maniera naturale, appunto, e di lasciare un albero come loro rappresentazione, chiaramente un tipo di albero che avranno precedentemente scelto. E’ dunque anche un progetto per le generazioni future che saranno felici di ereditare qualcosa che assomiglia più a una foresta che a un campo santo».

 



Chi pensate che sceglierà questo modo di lasciare la vita?
EP e PR: «Chiunque può scegliere questo tipo di sepoltura, che non va in contraddizione con i dettami di alcuna religione tra l’altro, e invita al ritrovo amici e parenti. In questo è la parte emersa di Emergence che assolve alla funzione che come molti altri elementi dell’architettura è fatto per durare e divenire parte della storia della nostra civiltà, contribuendo così alla conservazione della memoria degli antenati.
Senza dimenticare che richiede poco spazio e propone un processo sostenibile di sviluppo. Questo rende il progetto credibile da un punto di vista ambientale ed in fatto producibile industrialmente».

Voi lo scegliereste per voi stessi?
EP e PR: «Per quanto riguarda noi, nella speranza che la morte arrivi tra più tempo possibile, credo che preferiremmo non lasciare alcuna traccia del nostro passaggio. Noi siamo tra quelli che credono che il pianeta vada lasciato vivo e intatto per le generazioni future. Con Emergence lo si può fare, ma solo a metà».


HANNA LJUNGSTRÖM



Quella dello studio svedese Lots potrebbe rappresentare tra tutte l’operazione progettuale alla scala più intima, quella degli affetti. Il loro progetto Memento ha meritato addirittura un Red Dot Award nel 2011 ed è oggi acquistabile in molte parti del mondo. Memento testimonia l’approccio che ha reso meritatamente celebre questo studio di Goteborg: l’utente finale e i suoi bisogni sono il punto di partenza e di arrivo per questo tipo di progettazione; le tecnologie costruttive non sono viste come un mero vincolo fissato a monte del percorso progettuale, ma come un ulteriore territorio di sperimentazione sul quale lavorare a progetto in corso. In questo gioca sicuramente un ruolo la matrice tipicamente “arts & crafts” di un certo design svedese quale ad esempio quello di Hanna Ljungström, design manager dello studio Lots.


Perché morire alla  scala del design?
HL: «Design e innovazione sono temi che concernono la comprensione dei bisogni delle persone. Quando stavamo sviluppando questo progetto noi dello studio Lots ci siamo domandati come ci piacerebbe essere sepolti dopo la nostra morte. Rispetto alle opzioni canoniche eravamo tutti concordi nel desiderare una cerimonia di addio più personale ed evocativa del nostro posto nella natura, indipendentemente dal credo religioso di ognuno. Così abbiamo immaginato un’urna per funerali in mare con una forma riconducibile a quella di una conchiglia o allo scafo di un’imbarcazione. È una forma che agevola il passaggio di mano in mano tra i parenti e che si può cingere facilmente in un abbraccio. Galleggia per breve tempo sulle onde, poi lentamente s’inabissa.  È costruita in carta riciclata pressata per garantire una rapida dissoluzione e la dispersione delle ceneri sul fondale. È possibile scrivere messaggi sulla sua superficie oppure imbucarli nella fenditura sulla sua sommità».



Chi pensate che potrebbe scegliere quest’urna per sé?
HL: «Credo che potrebbe essere scelta da moltissime persone in verità. In fatto di cerimonie la tendenza ad una spiccata personalizzazione è sempre più presente e i funerali sono uno dei possibili esempi. Proprio la scarsità di opzioni per una sepoltura convenzionale ha spinto il nostro team a sviluppare qualcosa di completamente diverso. In fine è emerso che non eravamo gli unici ad avvertire il desiderio di una sepoltura dignitosa ma diversa. Dopo la pubblicazione del progetto siamo stati letteralmente sommersi da richieste di persone che avevano visto la nostra urna su blog di design e desideravano comprarne una. A quel punto abbiamo preso contatti con uno dei principali produttori mondiali di urne biodegradabili (American Passages International) ed oggi è possibile trovarla in vendita in molte parti del mondo».


Voi la scegliereste per voi stessi?
HL: «Assolutamente sì. Credo sia una bella idea quella di ricevere una cerimonia incentrata sulla mia persona e la mia vita. Diversamente da ciò che avviene con una sepoltura tradizionale cristiana le ceneri e l’urna ritornano nel ciclo della natura».


di Gianluca Gimini  

 

"La morte è fatta a scale" è stato pubblicato in Turris Babel, n. 95, 2014


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ISSN 2239-6063

edited by
Alfonso Acocella
redazione materialdesign@unife.it

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