Nicoletta Gemignani: La storia professionale di Italo Rota fluttua all’interno del magma multiforme dell’architettura contemporanea: si sostanzia di grandi realizzazioni pubbliche, arredi urbani, ristrutturazioni e allestimenti museali, architetture private e design degli interni. Ma il fortunato esordio è negli anni ottanta, in Francia, con la sistemazione del Musée d’Orsay e il rinnovo del Centre Pompidou in collaborazione con Gae Aulenti. Quanto e come queste esperienze hanno formato il suo futuro percorso professionale?
Italo Rota: Li definirei episodi legati alla casualità del momento, alla fortuna. Il Pompidou era un esordio anche per Gae. Sono stati grandi avventure, ma caratterizzati da una progettualità fuori dell’ordinario, quindi nella pratica non hanno avuto seguito, non hanno influito direttamente.
N.G.: Da Parigi a Milano: il ritorno in Italia, nel 1996, segna una nuova stagione progettuale.
I.R.: Direi che cambia più che altro lo scenario del territorio, il luogo in cui i progetti sono pensati e realizzati. Sono voluto tornare in Italia per capire se si poteva sciogliere quel nodo gordiano che in effetti è tuttora presente nell’architettura del nostro paese.
La grande svolta. Anni ’60, Palazzo della Ragione, Padova 2003. © fotografie Giovanni Chiaramonte
N.G.: E infine oggi: non solo Italia ed Europa ma anche New York, India e un progetto da poco concluso a Dubai. La sua architettura travalica confini spaziali e perfino culturali; quali caratteristiche, secondo lei, ne determinano la spiccata internazionalità?
I.R.: Beh, mi piace affermare di vivere “in una valigia”: il viaggio è la mia condizione, la mia esistenza, la normalità. Sicuramente non mi sento italiano; piuttosto mi definirei un essere planetario, se pur non globalizzato. Amo viaggiare in posti nuovi e conoscere le persone che vi abitano. È ciò che mi interessa, più degli ambienti o dei luoghi. Le persone, sì, perché le architetture sono protesi delle loro menti. E capire la gente, entrarci in contatto è il presupposto per poi progettare, costruire.
N.G.: Numerosi tra i suoi incarichi pubblici hanno interessato il ridisegno e l’arredo urbano dei centri cittadini: con l’esempio dell’isola verde realizzata a Nantes negli anni novanta la riqualificazione urbana è stata indubbia.
Come è possibile, oggi, rinnovare i centri storici e integrarli con le nuove periferie, senza perdere l’identità propria di ogni città?
I.R.: Può essere possibile creando delle “periferie non periferiche”. In Italia abbiamo un problema specifico, che non troviamo negli altri paesi. Qui da noi si fugge dalle città per stanziarsi nelle periferie; una tendenza inversa, contraria a quella delle altre aree urbane di tutto il mondo. Bisogna cercare di interpretare e comprendere tale fenomeno, per poi trasformarlo in trend architettonico.
Si può dare identità ovunque ci sia vita.
N.G.: Il progetto in corso della conversione dello spazio dell’Arengario in Museo del Novecento, a Milano, impone all’architetto un confronto difficile e multidirezionale: all’esterno è imprescindibile il contesto monumentale in cui si va a inserire – piazza Duomo –, all’interno è indubbio il rapporto con il contenuto, ovvero l’arte che vi si espone, e trasversalmente c’è il ruolo del fruitore. Pensa di riuscire nell’ardua impresa conciliatoria?
I.R.: Il confronto che sento più vivo è con lo statuto del visitatore. Egli si dovrà trasformare in esploratore, e improvvisare un viaggio senza tappe obbligate, senza una tabella di marcia prefissata. Un cammino personale, libero, attraverso l’architettura e il suo contenuto, il contesto geografico e storico in cui ogni singola opera è inserita.
Il vero esploratore dovrebbe viaggiare essendo sempre cosciente delle categorie spazio-temporali in cui si muove: Einstein l’aveva capito. “Il futuro mi interessa molto – affermava – perché è il luogo dove devo vivere la mia vita”.
N.G.: Dagli allestimenti di mostre ed eventi, ai padiglioni espositivi e alle strutture temporanee: l’avventura progettuale di Italo Rota tende a produrre un forte coinvolgimento e un ruolo attivo del fruitore. Ma è veramente il visitatore che, aggirandosi in libertà tra spazi fluidi, labirintici e colorati, sceglie gli infiniti percorsi possibili, o il cammino è comunque predisposto e invisibilmente direzionato?
I.R.: Gli spazi che immagino e creo sono spazi della mente, che poi si concretizzano e diventano immagini. Sono strutture non pedagogiche, ma emozionali; non unidirezionali, ma complesse. Le mostre per esempio sono luoghi in cui il singolo fruitore si presenta con il proprio corpo, con la propria fisicità, e ciò è diverso, è più di un’esperienza virtuale. E appunto diversamente da questa è un qualcosa di non direzionabile, comporta mutevolezza e complessità.
È vero, per l’architetto sarebbe auspicabile poter definire un flusso, far prediligere un cammino. Ma la forza e la ricettività di un’installazione fisica sono proprio queste: la libertà assoluta dell’esperire e dell’esplorare, e la validità di ogni interpretazione. Come le macchie nella psicoanalisi di Roscharch: per quanto possano essere codificate, ogni singolo paziente le associa a figure differenti, individuandone le infinite possibilità di significazione.
In photogallery
Museo D'Orsay, 1981-1985. Courtesy Studio Italo Rota & Partners
Ciudades de Agua. Exhibition pavilion, Expo Zaragoza 2008. © fotografie Giovanni Chiaramonte
Nantes, 1995. Fotografia V. Joncheray
Arengario, 2002-2010. Render courtesy Studio Italo Rota & Partners
More and More and More, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Firenze 2002. © fotografie Stefano Pandini
Good N.E.W.S Temi e percorsi dell’architettura, Triennale di Milano, Milano 2006. © fotografia Fabrizio Marchesi
MAXXI Cantiere d’autore – Workscape. Cinesebox per il padiglione della Biennale di Venezia, 10° Esibizione Internazionale di Architettura, Giardini della Biennale, Venezia 2006. Illustrazione: Andrea Codolo
N.G.: Nel suo libro Installation Exhibit, da poco uscito per Electa, narrazioni coinvolgenti e fantastiche fanno viaggiare il lettore attraverso gli spazi caleidoscopici e onirici delle sue architetture, invitandolo a guardare il mondo con occhi nuovi, lasciandosi guidare dalle emozioni.
In un ritratto che le dedica, quasi contemporaneamente, la rivista “Interni”, definisce l’architetto un prestigiatore e un alchimista, “a magician”. Quali gli ingredienti segreti delle sue pozioni magiche?
I.R.: Beh, se sono segreti non chiedetemi di rivelarli! … E poi non sono sempre gli stessi, anzi variano sempre.
Amo a questo proposito fare un parallelo con il cinema, con la regia di Stanley Kubrick, o Ridley Scott. Per questi registi è importante ogni volta confrontarsi con uno stile diverso: Lolita, Arancia meccanica, Full Metal Jacket…, sono film lontani tra loro per tematiche e generi di appartenenza, ma l’impronta è inconfondibile, il sostrato da cui nascono è il medesimo, e l’unica cosa che conta è la riuscita della narrazione. Così per me: il mio linguaggio, il mio approccio deve sempre cambiare, rinnovarsi di volta in volta, purché rimanga fissa la base, l’idea portante.
N.G.: Il valore della complessità nell’architettura contemporanea.
I.R.: Molti architetti di oggi pensano che il loro operare abbia una funzione morale, sanitaria, quasi taumaturgica. Io credo invece che per l’architettura odierna sia fondamentale scoprirne il dark side, rivelarne il lato scomodo, oscuro, perché solo così si potrà riscoprire la sua attinenza e pertinenza con la vita, con la realtà. Quello dell’architetto deve essere un “gioco sporco”, in cui lo sporco rappresenta la complessità.
Va a Studio Rota