Frammento di tegola romana con bollo laterizio di fabbricazione: “Faustino et/Rufino con(n)s(ulibus)” 210 d. C. Museo della città, Rimini.
Tipi di tegole e coppi romani. Da LUGLI (1957).
Il modello di origine di vari tipi di laterizi cotti romani – in particolare il caratteristico mattone quadrato di età imperiale – è da rintracciare nelle grandi tegole da tetto.6
Le tegole piane, insieme ai coppi (imbrices), rappresentano anche per i romani – al pari di altre civiltà mediterranee – i più antichi prodotti di argilla cotta usati nell’architettura. Da questi elementi, con notevole ingegno e creatività, gli ingegneri e i costruttori di Roma ne derivano la nuova idea di mattone e la stessa opera muraria composita dell’opus testaceum che renderà grandiosa e spettacolare l’architettura imperiale.
È da precisare come nel mondo romano il termine tegula (dal verbo tegere, indicante l’atto del ricoprire) sia impiegato per designare qualunque tipo di manufatto laterizio sottoposto alla cottura in fornace.
Lungamente presso i romani la tegula è stata ad indicare tanto la comune tegola da tetto quanto la lastra di laterizio cotto funzionale alle più varie esigenze costruttive; con i termini tegulae mammatae e tegulae tubulatae si indicano, ad esempio, tipi speciali di artefatti utilizzati rispettivamente per le intercapedini murarie dei sistemi di riscaldamento e per lo scolo delle acque piovane dei tetti.
In un passaggio famoso del De Architectura di Vitruvio scritto in avvio del principato di Augusto – in un’era in cui l’opus testaceum ancora non si è affermato – si coglie l’uso estensivo e generalizzante del termine tegula (con l’unica aggiunta delle misure: bessales, sesquipedales, bipedalis) riferito, nel caso specifico della citazione vitruviana, ad elementi di laterizio cotto impiegati per la realizzazione di pavimentazioni sopraelevate nei calidari dei bagni:
«Suspensurae caldariorum ita sunt faciendae, ut primum sesquipedalibus tegulis solum sternatur inclinatum ad hypocausim, uti pila, cum mittatur, non possit intro resistere, sed sursus redeat ad praefurnium ipsa per se; ita flamma facilius pervagabitur sub suspensione: supraque laterculis bessalibus pilae struantur ita dispositae, uti bipedales, tegualae possint supra esse conlocatae. Altitudinem autem pilae habeant pedes duo; eaque struantur argilla cum capillo subacta, supraque conlocentur tegulae bipedales, quae sustineant pavimentaum. Concamarationes vero si ex structura factae fuerint, erunt utiliores, sin autem contignationes fuerint, figlinum opus subiciatur…».
«I pavimenti sospesi dei calidari debbono essere fatti in modo che in primo luogo il suolo sia rivestito di tegole di un piede e mezzo, inclinato verso il calorifero sotterraneo, cosicché una palla se vi è deposta non possa star ferma all’interno ma invece essa da se stessa scenda fino all’anteforno. Così la fiamma si diffonderà più facilmente nell’intercapedine. E al di sopra con mattoncini di due terzi di piede siano eretti pilastri disposti in modo che tegole di due piedi possano essere collocate al di sopra. I pilastri poi abbiano per altezza due piedi ed essi siano foggiati con argilla impastata con pelo, e al di sopra siano poste tegole di due piedi che sostengano il pavimento. Le volte certo se saranno fatte in muratura, saranno più utili, se invece saranno in travature, vi si ponga sotto un rivestimento di terracotta…».7
Il termine tegula, quindi, in ambito romano è impiegato sia per indicare la tegola nell’accezione di elemento posto a protezione degli edifici dalla pioggia, sia per designare laterizi cotti destinati ad impieghi costruttivi speciali. Resta, comunque, centrale ed estensivo l’impiego di tegole per la formazione dei manti di tenuta all’acqua negli edifici romani sia d’età repubblicana che imperiale.
Presso i romani viene definito tectum qualsiasi soluzione costruttiva idonea alla chiusura superiore e alla protezione degli edifici sia civili che sacri; con tale termine si indicano tutte le coperture (piane, voltate, a falde inclinate) anche se, col tempo, questa denominazione diventerà sinonimo del classico tetto a spioventi coperto da elementi in laterizio.
Il tetto con struttura portante in legno e manto di tenuta in tegole laterizie è di gran lunga il più adottato nell’edilizia romana a fronte delle più complesse ed onerose coperture a volta che saranno impiegate prevalentemente nei piani inferiori; in ambito italico non presenterà una pendenza elevata a causa delle scarse precipitazioni, attestando fra i 18 e i 33 gradi le inclinazioni delle falde.
Nelle città della regione vesuviana – in particolare Pompei, Ercolano, Stabia – è stato possibile mettere in luce, con estrema precisione, le caratteristiche costruttive dei tetti. Jean-Pierre Adam fornisce, nel suo L’arte di costruire presso i romani, i dati salienti degli elementi e dei modi costruttivi dei tetti:
«La maggior parte dei tetti delle case di Pompei, a uno o due spioventi, conserva uno schema piuttosto semplice: gli elementi orizzontali, le travi di colmo (gli arcarecci, catenae) vanno da un muro maestro all’altro; su queste travi s’impostano i puntoni che risulteranno sporgenti dal muro (…) e sui quali verranno appoggiate le cantinelle (templa); su questa fitta orditura verranno disposte le tegole, o ancor meglio, secondo norme dettate da Vitruvio, prima di disporre le tegole si sovrapporrà un altro strato di travicelli, tenendo presente che ad ogni nuova sovrapposizione i travicelli vengono ruotati di 90° rispetto a quelli dello strato precedente. Carpenterie elementari di questo tipo erano quelle più frequentemente usate nelle abitazioni private, che non disponevano di ambienti molto grandi e le cui coperture potevano facilmente essere divise da tramezzi».8
Casa di Cosca Longus a Pompei. Le terrecotte e i gocciolatoi del compluvium. (Ph. A. Acocella)
I manti di copertura utilizzati dai romani – derivati indubbiamente da quelli greci ed etruschi, in particolare dal modello “siculo” – prevedono un unico tipo di apparecchiatura: le tegole piatte, dotate di alette laterali, vengono posizionate sull’ordito ligneo, in direzione longitudinale della falda, sovrapponendosi parzialmente nel senso della pendenza del tetto; i coppi di forma generalmente curva, sono posati a coprire le connessioni aperte fra tegola e tegola al fine di evitare passaggio di acqua e di infiltrazioni.
Per quanto riguarda la morfologia delle tegole romane è da evidenziare come la forma trapezoidale sia abbastanza generalizzata e di uso comune; meno frequenti le tegole rettangolari, rare quelle esagonali.
Molto variabili sono le loro dimensioni. Possiamo indicare, a titolo di esempio, le misurazioni di Jean-Pierre Adam in alcune città italiane: Roma (49×66; 39×46 cm); Ostia (48×72; 45×60; 41×57; 40,5×53 cm); Pompei (69×47,5; 52,5×66; 47,5×64; 50×59 cm); o ancora quelle di Giuseppe Lugli (effettuate sempre ad Ostia): 42×57; 44×57; 45×60; 46×59; 49×65, 47×66; 48×72 cm con spessori che variano da 2,8 a 4 cm e con bordi alti da 6 a 7 cm.
In assoluto le tegole più grandi rinvenute sul territorio italico appartengono al sacellum di Paestum: 75×110,5 cm.
Considerando il significativo spessore delle tegole (oscillante, in genere, fra i 2,5 e i 4,5 cm) s’intuisce il notevole peso esercitato da tali manti di copertura che comporta l’adozione di robusti orditi strutturali in legno.
L’intensa colorazione rosso-bruna dei manufatti da tetto è dovuta ad una prolungata e forte cottura al fine di rendere i prodotti in laterizio (porosi per loro natura) il meno assorbenti possibile nei confronti dell’acqua meteorica.
Tegola piana romana di ampie dimensioni. Da Pompei. (Ph. A. Acocella)
Per alcuni secoli, prima di impiegare mattoni espressamente prodotti per la formazione di cortine murarie, si “spezzano” le tegole da tetto per la costruzione di muri scegliendole fra quelle con spessore maggiore e più regolare. Al fine del loro utilizzo, eliminati i margini laterali sporgenti, si procede – poi – al taglio della lastra residua in due rettangoli nel senso della larghezza e, infine, a ridurla in quattro triangoli secondo le diagonali, queste ultime incise con la punta di una picozza.
«Poiché le tegole non hanno una misura costante – precisa Giuseppe Lugli – non si possono stabilire con precisione le misure dei triangoli, tanto più che la frattura avveniva quasi sempre in modo imperfetto. La misura più comune delle tegole è di cm 57×41, per cui i rettangoli risultano in media di circa 41×28,5 e i triangoli circa cm 32×28,5×20,5. Naturalmente queste sono le misure massime e molto approssimative; quelle reali si mantengono parecchio al di sotto e non seguono una norma costante, per cui non si può fissare nessun criterio di datazione.
Le differenze fra i mattoni e le tegole consistono nello spessore, nel colore e nell’impasto. Lo spessore delle tegole difficilmente supera i cm 3,5 e non è uniforme per tutta la lunghezza del frammento; il colore è rosso vivo, o rosso bruno, a causa di una forte cottura della creta per una migliore resistenza agli agenti atmosferici; l’impasto è assai compatto, con grana fine, poche scorie e quasi nessuna porosità. Al contrario, il mattone da paramento nell’età migliore, si mantiene fra i cm 3,5 e 4,5; ha un colore piuttosto giallo, a causa di una minore cottura; è più poroso e non di rado contiene granuli di sabbia. Questa sua maggiore porosità favorisce l’assorbimento della malta, creando con essa una coesione perfetta».9
Va evidenziato come le officine laterizie romane, sull’influenza della tradizione greca ed etrusca, producono elementi speciali per il completamento dei manti di copertura.
Tegola speciale per il passaggio dell’aria e dei fumi di cucina rinvenuta a Pompei. Da CIARALLO (1999).
Oltre agli embrici di colmo, con dimensioni maggiori e con lati longitudinali sagomati per accogliere e coprire i coppi di arrivo delle falde, si possono citare le varie tegole di forme speciali che permettono il passaggio dell’aria e della luce; si tratta delle cosiddette tegole con oculus – circolare o quadrangolare – e orli sporgenti per evitare le infiltrazioni d’acqua, alcune delle quali con “cappuccio” superiore protettivo.
In genere nelle cucine delle abitazioni romane, prive di veri e propri camini, sono istallate sulla superficie del tetto una o più tegole dotate di comignoli con funzione di piccole cappe, capaci di assicurare la fuoriuscita dei vapori di cottura, degli odori, dei fumi e consentire anche l’entrata di qualche raggio di luce. Integra e ben conservata è una tegola da cucina, datata I sec. d. C., proveniente da Pompei: rettangolare nella sua parte basamentale, lunga ben 65 cm ed alta 34 cm. L’artefatto in laterizio presenta un ampio foro circolare centrale con orli sporgenti sormontato da una “corona” conica, con aperture rastremate verso l’alto; un disco, con pomo centrale, sormonta il tutto impedendo in qualche modo il passaggio dell’acqua piovana.
Altri elementi speciali in terracotta prodotti dalle fornaci sono quelli per il completamento funzionale e la caratterizzazione ornamentale del tetto lungo la linea di gronda dove ogni fila di coppi, spesso, è conclusa da antefisse decorative. A Pompei è ampiamente documentato come la linea di gronda del compluvium riceverà una particolare attenzione mediante un ricco repertorio di antefisse (a decorazione vegetale o con figure mitologiche o protomi di animali molto “fantasiosi”), lastre di arresto e doccioni per il deflusso delle acque meteoriche.
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Note
* Il presente contributo è contenuto nel volume Alfonso Acocella, Stile laterizio II. I laterizi cotti fra Cisalpina e Roma, Media MD, 2013, pp. 76.
1 Questo paragrafo del saggio propone una rielaborazione e un ampliamento della sezione tematica “Tectum” contenuta in Alfonso Acocella, Il tetto. Elemento di architettura, Milano, Brianza Plastica, 2013, pp. 182.
2 Vitruvio, De Architectura (V, 10, 2).
La citazione è tratta dall’edizione del De Architectura curata da Pierre Gros per i tipi di Giulio Einaudi Editore, Torino, 1997, voll. II.
3 Jean Pierre Adam, “La carpenteria di copertura” p.224, in L’arte di costruire presso i romani, Milano, Longanesi, 1988 (1° 1984), pp. 367.
4 Giuseppe Lugli, “Tipi e forme di mattoni”, p. 545 in La tecnica edilizia romana, Roma, G. Bardi, Editore, 1957 (1998 ristampa anastatica), pp. 742.
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