Coperta del catalogo della mostra
La mostra che si è conclusa lo scorso luglio al Museo del Vetro di Empoli intitolata Taddei Etrusca e dedicata alla produzione delle due aziende tra il 1930 e il 1950, è stata occasione di riflessione su ciò che è rimasto della realtà produttiva vetraria nel territorio empolese e non solo.
Il catalogo curato da Silvia Ciappi e Stefania Viti mette in evidenza come il materiale, e in particolare il vetro verde, dalla forte contestualizzazione territoriale, abbia saputo elaborare tutti i fermenti artistici e culturali presenti in quel momento non solo in Toscana ma anche in Italia e in Europa.
Nel catalogo le curatrici si riferiscono più volte all’attività di Ponti e alla sua attenzione per il fare artigiano espresso attraverso le pagine di Domus e, successivamente, di Stile nella casa e nell’arredamento.
Un’attenzione per l’artigianato che rinnovava gli elementi tipici della cultura materiale dei diversi territori conciliata con un classicismo semplificato che non di rado acquistava anche accenti ironici.
Accanto a questa componente i vetri empolesi interpretano anche una ricerca verso forme talmente semplificate ed essenziali da far pensare all’idea stessa degli oggetti, alla loro tipizzazione secondo quella logica razionale che qui in Italia aveva la sua matrice proprio nell’essenza della classicità. (Che il vetro fosse uno dei materiali preferiti dai progettisti razionalisti è cosa nota e tra tutti gli studi che vedono l’impiego generoso del vetro va ricordato quello di Giuseppe Terragni per il Danteum dove pensò di restituire la perfezione spirituale del Paradiso attraverso una sala ipostila con colonne e pareti interamente in vetro)
Oltre alla riproposizione della classicità attraverso la semplificazione delle forme o l’astrazione di queste – di matrice razionale – è presente un’altra componente che faceva riferimento ad una identità territoriale come segno di purezza primitiva di origine rurale e che si affermò negli anni ’30 proprio a partire dalla Toscana: il cosiddetto movimento di Strapaese.
La presenza di questi caratteri nei vetri empolesi fu in grado di rappresentare non solo il gusto ma anche una composita dimensione culturale tanto da poterli definire come veri oggetti di design.
Se la lavorazione del vetro empolese nasce e si afferma in relazione ai contenitori per liquidi in particolare vino, ben presto, intorno al 1930, le aziende ampliano il proprio catalogo con vetri da tavola e contenitori per la casa e, a partire dal dopoguerra, sarà proprio in questo secondo settore ad avere maggiore visibilità.
Sono questi oggetti realizzati con processi evoluti ma ancora artigianali a diffondere un gusto nuovo soprattutto tra la nascente classe borghese del secondo dopoguerra: la bellezza entra nelle case di tutti, entra in quelle case che da poco si sono ricostruite o costruite anche con grandi interventi di edilizia pubblica.
L’artigianato, dunque, e non solo la produzione industriale, interpretando le esigenze estetiche, morali e funzionali del momento, sviluppa quell’idea di standard, (già presente nella lavorazione vetraria empolese fin dalle origini nella produzione dei contenitori da vino) che di lì a poco andrà ad investire ogni tipo di produzione dagli abiti alle abitazioni, dalle automobili ai bicchieri, insomma, per citare Ernesto Nathan Rogers, dal cucchiaio alla città.
Servito da gelato. Vetreria Taddei 1930-940. Altezza delle coppe 170 mm; diametro 220 mm. Collezione Maria Grazia Marzi.
Vaso. Vetreria Etrusca 1935-1940. Altezza 305 mm; diametro 220 mm. Collezione Alessandro Papanti
Il concetto di serie nella lavorazione vetraria rende difficile la valorizzazione dei pezzi unici disegnati da pittori scultori o architetti che trovano spazi significativi quasi sempre solo fuori dal progetto dell’oggetto d’uso. D’altra parte, la produzione non era neppure così matura da concepire come una fase fondamentale ed in gran parte autonoma, rispetto al processo produttivo, quella della progettazione che avrebbe avuto, tra le conseguenze, l’introduzione della figura di un progettista, della figura del designer.
Trasferimento di una damigiana nel forno di tempera 1960 circa.
Per tutti gli Anni Sessanta, comunque, la produzione standardizzata si concilia con la creatività e lo spirito innovativo dei maestri vetrai e di tutti coloro che partecipavano alla filiera che sono stati sufficienti a garantire successo commerciale e prosperità.
Ancora tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Anni Settanta si trovano vetri tartarugati o vasi in vetro colorato perfettamente in sintonia con le ricerche estetiche degli oggetti d’uso e dei prodotti di arredo di quel tempo.
Vaso in vetro ambra. 1970 circa. Altezza 185 mm; diametro 200 mm
La progressiva decadenza del tessuto produttivo empolese è sicuramente dovuta alla concomitanza di più fattori: l’abbandono del fiasco e della damigiana come contenitori identitari del vino toscano fu importante ma non sufficienti a spiegarne il declino.
La proposta di oggetti dedicati ad una classe media che poi ha soddisfatto le proprie esigenze con prodotti di altra provenienza, la difficoltà di rinnovarsi sotto l’aspetto formale hanno visto scomparire quasi del tutto la produzione di vetri da tavola e per la casa.
Vaso in vetro tartarugato. Vetreria CLAVE 1970 circa. Altezza 140 mm; diametro 380 mm.
Per i contenitori alimentari, invece, la cosa è andata diversamente: una grande azienda come Zignago Vetro, con una delle sue sedi di lavorazione proprio a Empoli, caratterizza gran parte della propria produzione proprio sui contenitori alimentari, in qualche modo interpretando uno dei possibili sviluppi della vocazione territoriale. E il fatto che la Zignago Holding controlli anche la Santa Margherita Spa che produce e commercializza prodotti vinicoli non è, forse, del tutto casuale.
Anche se non è l’unico, il rapporto contenuto-contenitore può essere una chiave importante per proporre nuovi percorsi di ricerca a partire proprio da quella d’identità.
Se è vero quello che scrive Branzi e cioè che “lo sviluppo della civiltà dei consumi ha avuto come effetto l’invasione delle nostre città non soltanto da parte dei prodotti ma soprattutto dei linguaggi promozionali e della simbologia del pakaging”, costruire un progetto di comunicazione e di prodotto sul contenitore in vetro legandolo alle realtà produttive del territorio può essere una strada percorribile proponendo nuovi processi progettuali per innovare secondo principi consolidati.
L’esistenza nell’empolese di aziende che si occupano del riciclo del vetro, di produzione di macchine per la lavorazione, di tecnologie, e, non ultima, una struttura che si dedica alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio storico della, come il Museo, fanno pensare a qualche possibile processo di rinascita.
Un’immagine del Museo del vetro di Empoli.
(Si ringrazia gli amici del MUVE (Museo del vetro do Empoli per avere fornito le immagini fotografiche)