Cini Boeri, Marco Zanuso, negozio di prodotti di rivestimento Linoleum, Milano, 1952; interno con mostra temporanea di arredi Arflex.
Negli anni in cui la fiducia in un progredire che affranca da miserie e servitù tocca il suo apogeo, l’immagine degli spazi per il commercio al dettaglio registra puntualmente il clima di ottimismo nel radioso futuro che lo sviluppo tecnologico ed industriale prospettavano e che un deciso miglioramento delle condizioni materiali di vita pareva inverare.
A differenza dei decenni precedenti, quando affidarsi alle potenzialità di una nuova espressione formale per esaltare la novità delle merci rientrava ancora in una dimensione “pionieristica”, si aprono ampi varchi per modi di comunicazione, concezioni spaziali ed estetiche che, intendendo marcare una netta cesura con il passato, attingono in varia misura alle ricerche delle avanguardie nel campo delle arti visive e di una cultura del progetto che tende ora ad affermarsi con tratti egemonici. Il negozio, con la sua temporalità breve, fornisce vivide testimonianze di ciò, a volte con esempi di notevole levatura, più spesso attraverso il dilagare di una “maniera modernista” collocabile nel diffuso fenomeno che investe un po’ tutti gli aspetti della cultura materiale e che noi oggi riguardiamo come modernariato.
Il giudizio che la cultura architettonica di quegli anni abbia guardato con distacco al tema, in virtù delle sue valenze mercantilistiche, è comunque assai radicato.
Stanley Marcus, per decenni a capo della importante catena statunitense Neiman-Marcus nonché figura intellettuale di spicco, è da più parti ricordato per essersi fatto interprete della necessità di coinvolgere architetti di primo piano, nonché di promuovere un’interazione tra il mondo del commercio e quello dell’arte. A questo fine, fra gli anni Quaranta e gli anni Settanta si rivolge a diversi di loro, da Kevin Roche a Philip Johnson, ma l’efficacia e l’immediatezza delle testimonianze con le quali argomenta la scarsa soddisfazione ricavata da queste esperienze sono utilizzate da Daniel Herman per non meno efficacemente quanto categoricamente affermare: «Architecture’s professional-academic establishment has failed twice with shopping. High architecture bungled first by denying shopping’s presence, then by accepting it blindly»1.
Si tratta tuttavia di convenire cosa si intenda per architettura “alta” e a quale momento storico si ancori il giudizio.
Dai margini di una ricostruzione che non ha sedimentato una solida memoria delle vicende relative allo spazio commerciale e alle sue trasformazioni si è scelto di ripercorrere alcuni episodi relativi a negozi di fascia medio-alta specializzati nella vendita di una particolare gamma di prodotti, quando non anche monomarca, che – nella pluralità di formule e formati sottesa allo stesso estensivo significato del termine negozio - sono tra quelli che hanno maggiori esigenze e possibilità di investire nell’ideazione di una spazialità e di un’immagine qualificate.
Consideriamo per esempio il volume che Jose A. Fernandez dedica allo Specialty Shop statunitense e che, oltre a presentare un’ampia rassegna di sue ed altrui realizzazioni fra la fine degli anni 1930 ed il 1950, affronta ed inquadra puntualmente natura e problematiche dei rapporti fra progettista e retailer2. Da un lato si può concordare che il volume, al pari di altri qui citati, rientra in una pubblicistica di settore. Dall’altro, se si scorrono i nomi degli autori, è difficile sostenere che figure quali Victor Gruen o Raymond Loewy non abbiano avuto un ruolo di tutto rilievo nell’architettura e nel design.
Fernandez sceglie di aprire la sua rassegna proprio con la prima opera di Gruen negli USA - la pelletteria Lederer’s sulla Fifth Avenue a New York - poiché vi ravvede un «nuovo approccio al problema [che] ha rivoluzionato il progetto del negozio»3. La “rivoluzione” introdotta dall’architetto da poco immigrato dall’Austria consiste, di fatto, in un rigoroso impianto funzionalista che per molti versi non si discosta da quello del progetto non realizzato che Le Corbusier redige nel 1936 per i negozi Bat’a e del quale pare condividere la concezione fornendone una reinterpretazione “addolcita” e in versione luxury: l’arretramento del fronte su strada (il portique di Le Corbusier ora tradotto con arcade) crea uno spazio di transizione tra esterno ed interno che con le sue teche attrae senza impegno il cliente mentre all’interno un preciso ordine spaziale è stabilito dall’organizzazione modulare dei contenitori a parete con i banchi vendita allineati in sequenza secondo la scansione sottolineata dagli espositori che “forano” i contenitori a parete.
Nei successivi progetti il rigore funzionalista si stempera e si diversifica in una molteplicità di varianti, compaiono le linee curve ed altre connotazioni ricollegabili allo Styling, fino anche a essere posto in deciso secondo piano da una spazialità scenografica, come avviene nel negozio di abbigliamento Joseph Magnin a Palo Alto, dove pure un’impronta purista è ancora ravvisabile nel trattamento dei materiali e nelle soluzioni di arredo. Il “nuovo approccio” fissa tuttavia un impianto che informa non solo la maggior parte dei molti negozi che Gruen firma in collaborazione con figure tutt’altro che di secondo piano come Morris Ketchum Jr. o Elsie Krummeck, bensì anche quelli di altri progettisti e dello stesso Fernandez. Nonostante ciò, forte della convinzione che «il cliente desidera qualcosa di inusuale che attiri l’attenzione»4, nella gioielleria Rebajes, sempre sulla Fifth Avenue di New York, l’autore del volume tocca vertici di virtuosismo nell’uso di forme curve con il lungo banco vendita appeso al soffitto e sormontato dal sistema di illuminazione che riprende la stessa conformazione a S.
Per quanto negli USA si affermi, prima e più che altrove, una tendenza che rifugge l’ortogonalità razionalista per una più libera organizzazione distributiva degli spazi e dei banchi di vendita, ordine spaziale di matrice funzionalista e aggettivazioni ad effetto paiono convivere senza apparente conflittualità in molti casi, ivi compresi quelli di una delle figure di punta dello Streamline come Raymond Loewy.
C’è poi il caso Morris Lapidus. Prima di guadagnarsi la notorietà con il “neo-barocco” dei grandi alberghi di Miami, progetta numerosi negozi nei quali può, a seconda delle circostanze, attenersi a un compassato razionalismo oppure ricercare effetti spettacolari, tanto attraverso la sapiente manipolazione di stilemi modernisti, quanto ricorrendo a vistosi apparati decorativi di derivazione eclettico-storicistica.
Nella ormai matura società dei consumi statunitense, è del resto risaputo che le spettacolarizzazioni scenografiche di sapore hollywoodiano, il Too Much Is Never Enough che Morris Lapidus riprende anche nella titolazione della sua tarda autobiografia5, sono più in sintonia con il gusto prevalente di quanto non lo siano il Good Design e l’architettura moderna di derivazione europea; esse sono in special modo gradite dai nuovi ricchi e ben si prestano a conferire un tono glamour anche a negozi rivolti ad una clientela più vasta e popolare. Non stupisce quindi che il suo operare incontri ampi consensi da parte della committenza e, al contempo, la risoluta esecrazione dall’architettura “alta” dell’epoca; salvo poi essere riscoperto e rivalutato negli ultimi decenni del secolo scorso, quando il Postmodern colloca Morris Lapidus tra i suoi precursori.
Nonostante la realtà socio-economica ben diversa da quella dalla quale si irradia il mito dell’American Dream, negli anni 1940 la progettazione di spazi commerciali ha spunti di notevole vitalità anche in Italia. Durante il secondo conflitto mondiale, e almeno fino al 1943, le realizzazioni proseguono anche quando il settore delle costruzioni è di fatto fermo, mentre l’immediato dopoguerra è caratterizzato da un fervore di attività che non è ancora associato a più generalizzati segnali di ripresa. In tale situazione, un po’ tutti gli architetti italiani guardano all’allestimento di negozi come ad una opportunità di lavoro non trascurabile e che può, al tempo stesso, più di altre offrirsi quale laboratorio di sperimentazione.
Il caso di Angelo Bianchetti e Cesare Pea, ai quali sono accreditati circa settanta negozi nel periodo 1942-19526, è da questo punto di vista emblematico.
Nel 1942-43 i due architetti progettano numerosi negozi per l’azienda di macchine addizionatrici per ufficio Lagomarsino e tra questi l’esempio più noto, e tra i meglio riusciti, è quello nella galleria Vittorio Emanuele a Milano. La totale trasparenza della facciata, a tutta luce senza profilati metallici in vista, fa sì che l’intero negozio diventi vetrina di se stesso e riveli un interno tanto essenziale quanto raffinato nella cura dei dettagli e dell’illuminazione: l’esposizione dei prodotti su un elaborato sistema a mensola retroilluminato fa da quinta ad un’ “abside” semicircolare, possibile rimando all’impianto basilicale quanto effettivo salottino di attesa, nella quale spicca un’installazione, appesa a cavi e raddoppiata dal cielino a specchio, dove una macchina addizionatrice è “posta in orbita” all’interno di una composizione astratta.
Angelo Bianchetti e Cesare Pea, negozio Lagomarsino, Milano, 1942.
Se il rifiuto di soluzioni standard è uno degli elementi che caratterizza il loro pensiero, l’unicità che contraddistingue ciascun intervento poggia su di una medesima propensione allo slancio creativo. Di pochi anni più giovani dei “maestri” del razionalismo italiano, Bianchetti e Pea ne recepiscono la lezione e, tra evidenti rimandi e personali declinazioni poetiche, il loro fare costituisce uno dei molteplici rivoli nei quali la “tradizione del moderno” viene diversificandosi ancor prima di essersi saldamente radicata.
La frequentazione ed il fattivo coinvolgimento di grafici, pittori e designer, che essi avevano già avuto modo di praticare in allestimenti espositivi e fieristici della seconda metà degli anni Trenta, è non di meno importante per un approccio vocato alla sperimentazione di nuove forme espressive e per far sì che il peculiare rilievo riservato all’aspetto comunicativo possa in più casi tradursi in dispositivi nei quali la promozione commerciale perviene ad esiti che hanno la valenza di opere di arte contemporanea.
Angelo Bianchetti e Cesare Pea, negozio Polyfoto, Milano, anni 1940; pannelli decorativi di Bramante Buffoni.
Sul finire degli anni Quaranta Bianchetti e Pea pubblicano anche due volumi nei quali le loro idee ed i loro progetti sono presentati all’interno di un ampio regesto di “negozi moderni”7, mentre poco dopo è Roberto Aloi a dedicare al negozio un volume della collana Esempi di architettura moderna di tutto il mondo da lui curata e che affida alla prefazione di Antonio Cassi-Ramelli il compito di delineare le specificità di un tema che tende a sfuggire alle classificazioni perché «ad ogni tipo di acquisto corrisponde uno speciale modo di esporre e di vendere e quindi di ambientare e di progettare»8.
Negli anni Cinquanta il boom economico e, contestualmente, quello del design italiano allargano ulteriormente lo spettro delle variabili in gioco, oltre che delle opportunità. Presentare i nuovi materiali per la pavimentazione e il rivestimento, pressoché privi di spessore, è, ad esempio, una sfida che può essere affrontata facendo conto sull’ampio gamma di colori che essi offrono. È quanto fa Annibale Fiocchi nei punti vendita che allestisce per Domosic – marca di una delle aziende più attive nel settore, la Mazzucchelli; nel negozio di Milano l’esposizione dei prodotti diviene altresì partito architettonico con il grande pannello a strisce verticali sfalsate e, ancor più, nel controsoffitto a diedri.9
Nel negozio Linoleum a Milano, Cini Boeri e Marco Zanuso impiegano invece la campionatura dei materiali posandoli in opera all’interno di un’ambientazione flessibile che, rispondendo alla richiesta della committenza, è predisposta per accogliere esposizioni temporanee; e le immagini d’epoca ci propongono quella delle nuovissime sedute imbottite in gommapiuma di Arflex con un allestimento che getta un ponte verso il comparto arredo10.
In questo periodo un po’ tutte le aziende del settore che concorrono a determinare il fenomeno del design italiano, aprono propri showroom a Milano. La relazione fra design di prodotto e di interni è qui quanto mai stretta sia perché il secondo si presenta in genere come una serie di ambienti arredati con gli oggetti del primo, sia perché è nella logica delle cose che il progettista sia spesso uno degli architetti-designer con cui l’azienda ha instaurato un rapporto di fiducia. Se è Roberto Menghi a progettare il primo showroom Arflex, per il primo monomarca in via Montenapoleone con il quale Tecno inaugura la formula “solo Tecno vende Tecno” Osvaldo Borsani riassume su di sé tutti i ruoli: imprenditore, designer e ideatore di uno spazio aderente alla visione dell’azienda e all’estetica dei prodotti esposti11.
A riprova del ruolo che Milano ha ormai assunto a scala internazionale, non sono poi solo le “fabbriche del design italiano” ad aprirvi proprie rappresentanze e, per citare un altro esempio di coincidenza tra figura progettuale ed imprenditoriale, nel 1956 Florence Knoll predispone una serie di “stanze” che accolgono la miglior produzione del Good Design statunitense12.
Considerata in questo contesto, l’organizzazione commerciale della Olivetti costituisce senza dubbio un episodio per molti versi unico, ma che trova un terreno fertile da cui scaturire e giungere ad esprimerne la propria peculiarità.
Riferendosi soprattutto ai più prestigiosi spazi di vendita e rappresentanza affidati a noti architetti ed artisti esterni all’azienda, è stato da più parti osservato come essi siano riconducibili ad un’unità ideale che non va a scapito dell’autonomia espressiva. Tuttavia, l’immagine di una polifonia di linguaggi e sensibilità che congiuntamente concorre a comunicare l’illuminata strategia di impresa di Adriano Olivetti attraverso uno straordinario spettro di (pochi) “pezzi unici” non rispecchia nella sua totalità la realtà di una rete commerciale che, sia pure con diversa densità, giunge a coprire larga parte del pianeta.
Ai fini di una maggiore comprensione della vicenda, l’attività svolta da Gian Antonio Bernasconi nei venti anni di collaborazione con Olivetti (1937-1957) è uno degli aspetti che resta da approfondire: in un opuscolo di presentazione dell’attività del proprio studio professionale, l’architetto si attribuisce a posteriori ben trecento allestimenti e, tra questi, ne elenca centodieci in Italia e diciotto all’estero concepiti facendo ricorso a quelli che definisce «schemi ad elementi normalizzati»13.
All’inizio degli anni Quaranta Bernasconi mette a punto un progetto base che ha una prima, impegnativa applicazione nel negozio di Bologna, puntualmente segnalato da Domus14.
È un indirizzo evidentemente diverso rispetto alla ininterrotta sperimentazione di Bianchetti e Pea, ma è anche qui quasi sempre presente l’interlocuzione con l’intervento artistico. Tra le soluzioni di più immediata riconoscibilità che ricorrono vi sono il rivestimento parietale con pannelli di faesite verniciati di bianco, l’inserimento di parti a specchio, di frequente a tutta altezza, a dilatare lo spazio e le mensole ribaltabili in legno e linoleum per l’esposizione dei prodotti.
Non si tratta tuttavia di un progetto tipo da riprodursi identicamente. Al contrario, esso è, a seconda delle esigenze, rivisitato e modificato nel tempo fino a rendere problematica, se non impossibile, l’individuazione di una netta linea di separazione tra punti vendita ad “elementi normalizzati” e non.
Il ricorso ad una sorta di vocabolario costruttivo sostanzia comunque la percezione che, prima e oltre l’unità ideale di cui si diceva per i più storicizzati “pezzi unici”, uno “stile Olivetti” si manifesti anche nel negozio. «La coerenza di stile, l’eleganza senza lussi dei prodotti industriali che escono da Ivrea sono le stesse caratteristiche dei negozi che si presentano sia nella modesta sede di rappresentanza di provincia, che nella grande sede di Madrid o di Lione», scrive nel 1961 Renato Bazzoni15. E ciò attraverso una prassi progettuale in linea con l’idea di design process secondo la quale, parafrasando il pensiero di Renato Zorzi, la trasmissione dell’identità aziendale non indulge in improvvisazioni o spontaneismi, ma allo stesso tempo rifugge procedure meccanicamente ripetitive16.
Sul finire degli anni Sessanta la chiarezza di un rarefatto ordine spaziale che accomuna un po’ tutti i negozi Olivetti conosce tuttavia un netto momento di discontinuità con gli showroom progettati da Gae Aulenti a Parigi e Buenos Aires17. Il rinnovo del negozio di Parigi del 1967 è in questo senso particolarmente indicativo poiché va a sostituire l’allestimento ideato da Franco Albini e Franca Helg nove anni prima. Al sistema smontabile e flessibile di leggere strutture espositive collocato in un ambiente nel quale anche i quadri appesi alle pareti contribuiscono a creare un’atmosfera simile a quella di una mostra d’arte contemporanea e design, Aulenti propone una composizione quanto mai densa e carica di riferimenti simbolici.
Gae Aulenti, negozio Olivetti, Parigi, 1967.
E oltre che della situazione aziendale, che ha ormai imboccato il ramo discendente della sua parabola, i suoi interventi sono sintomatici dei mutamenti in atto nel contesto culturale.
In questo senso, la storia dell’architettura annovera i piccoli negozi che Hans Hollein realizza all’inizio della sua carriera a Vienna fra gli esempi che vanno nella direzione di un superamento del moderno. Se tuttavia ci limitiamo ai primi, il negozio di candele Retti del 1965-66 e la boutique Christa Metek del 1966-67, la sottolineatura del ruolo dell’architettura come mezzo di comunicazione e lo sganciamento da una presunta ortodossia non si discosta dalla ricerca delle neoavanguardie che, con proposte tra l’ironico e il parossistico, continuavano in quegli anni a prefigurare tecnologici nuovi mondi piuttosto che guardare al passato e dichiarare la fine dell’utopia.
Hans Hollein, boutique Christa Metek, Vienna, 1966-67.
I due negozi sono così concepiti come oggetti di industrial design espansi alla scala dell’architettura ed in questo si può ravvisare un momentaneo punto di contatto con una sensibilità progettuale altrimenti nettamente dissimile come quella di Shiro Kuramata. Nella boutique Christa Metek Hollein tratta la facciata come elemento di richiamo mentre Kuramata in quella per Market One a Tokyo di fatto sopprime il fronte su strada attraverso una sorta di “bocca” che inghiottisce il visitatore; entrambi fanno comunque ricorso ad una soluzione che riveste completamente le superfici di materiale plastico, come si trattasse di uno stampaggio a iniezione dentro il preesistente contenitore architettonico, con un trattamento omogeneo nel quale sono scavate le scaffalature, le nicchie appendi abiti e, nel caso di Kuramata, anche due antropomorfe sedute a parete.
Shiro Kuramata, boutique Market One, Tokyo, 1970.
In esempi come questi l’imminente tramonto della modernità si tinge dei riflessi dell’ “era spaziale” evocata anche da Gae Aulenti con la capsula posta al centro dello showroom di Parigi, a ribadire come il negozio, proprio perché in genere destinato alla breve durata, si presti più compiutamente di altre architetture ad esprimere lo spirito del tempo in cui vede la luce.
Il carattere effimero dello spazio commerciale non era del resto per nulla avvertito come limite da Shiro Kuramata, che mostrava anche in ciò come il suo interesse per la contemporaneità occidentale continuasse a essere permeato di una saggezza propria del pensiero buddhista. A chi gli chiedeva se non provava un senso di vuoto nel vedere un suo progetto svanire nell’arco di pochi anni, Kuramata rispondeva: «avverto il suo valore estetico proprio perché finisce per svanire»18.
di Stefano Zagnoni
Leggi anche Cultura del progetto e spazi commerciali nell’età del moderno – 1900/1940
Note
1 Daniel Herman, “High Archirecture”, in Chuihua Judy Chung et al. (a cura di), Harvard Design School Guide to Shopping, Taschen, Köln ecc. 2001, p. 391.
2 Jose A. Fernandez, The specialty Shop, Architectural Book Publishing Co., New York 1955 (1° ed. 1950).
3 Jose A. Fernandez, The specialty Shop, cit., p. 19.
4 Jose A. Fernandez, The specialty Shop, cit., p. 24.
5 Morris Lapidus, Too Much Is Never Enough: An Autobiography, Rizzoli, New York 1996.
6 Cfr. Claudia Bianchi, Bianchetti e Pea : Forme creative dell'esporre 1934-1964, tesi di laurea discussa alla Facoltà del Design, Politecnico di Milano, a.a. 2009/ 2010 http://hdl.handle.net/10589/3104.
7 Bianchetti Angelo, Pea Cesare, Negozi, G. G. Gorlich, Milano 1947; id., Negozi moderni, G. G. Gorlich, Milano 1949.
8 Roberto Aloi, Esempi di architettura moderna di tutto il mondo / Negozi d’oggi, Hoepli, Milano 1950.
9 Cfr. Renato Bazzoni, Negozi, G. G. Gorlich, Milano 1961, pp. 107-111.
10 Cfr. Renato Bazzoni, Negozi, cit., pp. 20-25.
11 Cfr. Renato Bazzoni, Negozi, cit., pp. 26-33 (Arflex) e 46-51 (Tecno).
12 Cfr. Renato Bazzoni, Negozi, cit., pp. 52-59.
13 Bernasconi e associati architetti e ingegneri, Bernasconi e associati architetti e ingegneri B & A, in proprio, Milano s.d. (1970 ca.).
14 Melchiorre Bega, “Negozi”, Domus, n. 170 - febbraio 1942, pp. 74-81.
15 Renato Bazzoni, Negozi, cit., p. 181.
16 Cfr. Renato Zorzi, “Design Process”, in Design Process. Olivetti 1908-1983, Edizioni di Comunità, 1983, p. XIII.
17 Cfr. p.e. Margherita Petranzan (a cura di), Gae Aulenti, Rizzoli, Milano 1996, pp. 84-91.
18 Kazuyo Komoda, “Dai 60 ai 90. Interior Design in Giappone”, Ottogano, n. 100 – 1991.