Domus pompeiane ad atrio: Casa del Labirinto, Casa del Fauno, Casa di Apolline e Casa del Menandro. Da ZANKER (1993)
Abbiamo inteso collegare – attraverso un salto “acrobatico” – funzionalmente, o solo narrativamente, tutta una serie di artefatti edilizi o soluzioni applicative con impiego di prodotti laterizi che entrano in contatto con l’acqua, risorsa indispensabile di vita e assai scarsa nell’antichità.
L’approvvigionamento dell’acqua nelle civiltà antiche del Mediterraneo ha svolto un ruolo sempre centrale a cui ha corrisposto la ricerca di soluzioni e di dispositivi efficienti di captazione, conservazione e uso oculato.
È interessante seguire nel contesto italico-romano, in particolare campano dove abbiamo a disposizione un’ampia documentazione, i modi di tesaurizzazione e gli stessi “percorsi dell’acqua” a contatto con gli artefatti in laterizio – centrali nella nostra indagine – soprattutto nella fase antecedente alla realizzazione dei grandi e perfezionati acquedotti romani di età imperiale che hanno assicurato la captazione remota dell’acqua, il trasporto a distanza e la sua erogazione a pressione, in forma corrente, sia nella capitale che nelle tante città romanizzate.
A differenza dei territori dell’Italia settentrionale dove è stato più facile accedere alle falde acquifere a mezzo di pozzi realizzati spesso con grandi mattoni curvi in laterizio, nelle regioni meridionali la disponibilità della quantità di acqua necessaria alla vita dei nuclei familiari è stata legata – per molti secoli – alla captazione dell’acqua piovana accuratamente canalizzata ed accumulata in cisterne più o meno grandi. Raccogliere e tesaurizzare l’acqua piovana diventa nel territorio vesuviano – scarso di sorgenti naturali di superficie e con falde sotterranee posizionate al di sotto dei venti metri, oltretutto con presenza di banchi rocciosi duri di natura lavica – una operazione obbligata, la sola praticabile.
Restituzione grafica di domus vitruviana con atrio tuscanico. Da GROS (1997).
Una testimonianza di tale consuetudine è tangibilmente fornita dagli insediamenti della Campania dove gli scavi e gli studi delle città distrutte dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. consentono una lettura completa delle soluzioni adottate.
Sono gli stessi organismi architettonici, mediante la loro concezione morfologica, ad offrire un contributo significativo alla raccolta dell’acqua; in particolare la casa ad atrio di epoca repubblicana, attraverso la sua specifica codificazione tipologica, ne è testimonianza tangibile.
È possibile valutare tale apporto attraverso l’analisi delle domus ad atrio di Pompei, Ercolano, Stabia, Oplontis fra i pochi centri – se non gli unici del mondo antico – di cui è dato avere testimonianze copiose e complete dell’abitazione nelle sue strutture di fondazione e di elevazione legate al modello della casa unifamiliare.
Le città seppellite e “congelate” materialmente alla data dell’eruzione del Vesuvio consentono – a fronte delle città romane europee che hanno restituito testimonianze limitate al solo piano terra delle abitazioni – di seguire le caratteristiche di partenza e le evoluzioni della casa italica attraverso più secoli di vita, certamente dalla fase finale della repubblica alla prima età imperiale.
Si è di fronte, in particolare, ai microcosmi abitativi delle domus rappresentative di un modello dell’architettura domestica unifamiliare ampiamente diffuso nelle città della penisola romanizzata, rispetto al quale solo più tardi si differenzierà il modello tipologico dell’abitazione plurifamiliare – documentato soprattutto nella città di Ostia – legato alla concezione del caseggiato urbano, all’idea dell’insula.
La domus campana, da sola, ci aiuta a conoscere la casa italico-romana di città delle classi agiate essendo rimasti superstiti e documentati gli elementi della costruzione insieme agli apparati decorativi nel loro complesso; dalle redazioni pavimentali ai rivestimenti parietali, dagli alzati di facciata ai sistemi di copertura; questi ultimi, in particolare, costituiscono l’incipit – nella nostra trattazione – al tema del rapporto fra elementi in laterizio e percorsi dell’acqua.
La domus unifamiliare, cosi come la conosciamo dagli scavi delle città vesuviane, si definisce in particolare – lungo il III e II sec. a. C. – attraverso la soluzione distributiva dell’atrium quale spazio generativo centrale intorno al quale sono disposti gli ambienti residenziali che consentano lo svolgimento delle attività domestiche e pubbliche della famiglia.
Tale concezione tipologica della casa segnerà lungamente la storia della residenza unifamiliare urbana. Il suo schema spaziale e distributivo codifica e istituzionalizza un organismo edilizio introverso, chiuso perimetralmente verso strada da muri ciechi (o, tuttalpiù, dotati di aperture piccole come feritoie); l’entrata, attestata generalmente sull’asse centrale, conduce sempre direttamente nell’atrio in forma di corte interna – coperta al perimetro dalle falde del tetto e aperta al centro verso il cielo – su cui convergono tutti gli ambienti abitativi con il tablinium, lo spazio più nobile della casa, posizionato in asse alla porta di ingresso sul lato opposto.
L’atrio tuscanico – il più rappresentativo ed antico fra quelli citati da Vitruvio nel De Architectura (VI, 3,1) insieme al corinzio, al tetrastilo, al testudinato – rivela la centralità di una corte interna con apertura nel tetto quale fonte di luce, di aria e di captazione – non meno importante per la vita degli abitanti – di acqua.
È istruttivo seguire da vicino la morfologia del tetto a compluvium, i suoi elementi costitutivi, lo stesso rapporto ingaggiato con l’acqua piovana per apprezzarne completamente il suo significato e valore.
La copertura dell’atrio tuscanico, a forma di tronco di cono rovesciato, scarica tutto il peso del pesante manto di tegole e coppi laterizi e dell’orditura lignea sull’apertura centrale del compluvium; qui, a svolgere un ruolo strutturale, sono poste due grosse travi maestre – squadrate, di buona qualità e ben stagionate, a volte ottenute con l’accoppiamento di due travi soprattutto negli atrii di maggiore ampiezza – disposte nella direzione della larghezza dell’atrio.
Grande tegola angolare (84×90 cm), con canale di gronda e decorazione terminale a protome leonina, rinvenuta nella casa di C. Iulius Polybius (I sec. d. C.) a Pompei. Da CIARALLO (1999).
Queste travi, “incamiciate” negli incastri murari mediante grosse tegole di laterizio al fine di proteggerle dall’umidità (Vitruvio VI, 3, 1), sono irrigidite perpendicolarmente da traverse centrali che consentono di definire il compluvio. Dai vertici di quest’ultimo sono impostate, in pendenza, le quattro travi angolari necessarie a definire la struttura geometrica a tronco di cono rovescio del tetto; a completare il sistema di carpenteria lignea è disposta una serie di travicelli perpendicolari al compluvio e, infine, un eventuale tavolato su cui predisporre gli elementi laterizi di tenuta all’acqua.
Il manto di copertura, comunemente, è costituito da manufatti in terracotta – di cui gli scavi delle città vesuviane ci hanno restituito una grande messe – che, in relazione alla forma, collocazione e funzione, si dividono in tegole piane (tegulae bipedales e sesquipedales), coppi ricurvi (imbrices) e tegole speciali (tegulae colliciares) destinate ad essere collocate in corrispondenza delle linee di intersezione delle falde; inoltre, a caratterizzare i quattro lati del compluvium di numerose domus di Pompei – sull’influenza della tradizione greca ed etrusca – sono impiegate terrecotte architettoniche sotto forma di cassette di gronda, doccioni, antefisse con motivi vegetali o zoomorfi a chiusura delle testate dei coppi affacciati sulla linea di stillicidio dell’acqua piovana.
Un bell’esempio di tale specializzazione produttiva è il tegolone angolare, ritrovato negli scavi della Casa di C. Iulius Polybius, con gocciolatoio a protome leonina, contrassegnato da ragguardevoli dimensioni (84×90 cm).
Ecco allora precisarsi il ruolo ambivalente delle falde e degli artefatti in laterizio dei tetti che non si limitano a proteggere i volumi e gli spazi dell’atrio dagli agenti atmosferici (dalla pioggia in particolare); a questa funzione, si somma quella – altrettanto importante per la vita dell’abitazione antica – svolta dalla copertura a compluvio quale dispositivo di captazione e di direzionamento dell’acqua piovana, dall’alto verso il basso, all’interno del bacino centrale di raccolta rappresentato dall’impluvium.
Alla figura in quota del compluvium, quale linea di stillicidio delle acque meteoriche, corrisponde a terra quella dell’impluvium, sua esatta specchiatura geometrica; entrambe derivano etimologicamente il loro nome da pluvia (pioggia).
Compluvio, quindi, come linea in quota da cui la pioggia rifluisce in cascata verso il basso; impluvio come bacino centrale, a terra, in cui l’acqua cade e si raccoglie per proseguire, poi, ulteriormente il suo percorso.
L’impluvio presenta generalmente due fori; il primo alimenta la cisterna interrata a quota più bassa, proporzionata alle esigenze della famiglia; il secondo allontana ed evacua l’acqua (sia quella sporca delle fasi iniziali di pioggia, sia quella in eccedenza rispetto alla capienza della cisterna stessa) attraverso un condotto interrato che scarica su strada. A regolare i ritmi di raccolta o di allontanamento dell’acqua troviamo, spesso, sfere di pietra (o altri dispositivi) per la chiusura degli orifizi.
Dalla cisterna l’acqua è attinta attraverso la bocca di un pozzo (puteus), aperto a volte alla stessa quota del piano pavimentale, altre volte dotato di una vera (puteal) in tufo, marmo, terracotta al pari di quanto documentato nelle case a corte di Marzabotto.
Differentemente dai tetti in laterizio che non sono percepibili e visibili se non nel loro affiorare lungo la gronda del compluvium, negli atrii delle domus di Pompei ed Ercolano la presenza della terracotta riemerge e si “materializza” a volte con forte evidenza nei piani pavimentali.
Ciò avviene soprattutto nei severi spazi degli atrii delle domus di età repubblicana – basti citare i più nobili esempi di Ercolano e Pompei quali la Casa Sannitica, la Casa del Bicentenario, la Casa del Tramezzo di legno – dove la rossa materia laterizia delle stesure pavimentali in cocciopesto è capace di “far brillare” al centro – per contrasto cromatico – gli impluvium, spesso di marmo chiaro, inondati di luce dall’alto.
Caso particolare, quasi un unicum, è rappresentato dalla Casa dei Ceii a Pompei in cui un laterizio di recupero (cocci curvi di anfore) è impiegato in una originalissima tessitura pavimentale che dagli spazi di distribuzione dell’atrio di spinge fino a rivestire l’intero bacino dell’impluvium.
Nella domus la realizzazione dell’impluvium è affidata a cocci, per lo più frammenti di anfore disposte a coltello in un’apparente scrittura pavimentale irregolare, definita “vermicolato di cotto” dalla letteratura archeologica. Nei rimanenti ambienti ritroviamo pavimenti in cocciopesto a motivi lineari con inserimenti di tessere di marmo.
La Casa dei Ceii ci mostra un atrio tetrastilo in cui il dispositivo delle quattro colonne, poste in ciascun angolo dell’impluvium, regge il tetto compluviato consentendo di ridurre la lunghezza e la sezione delle travi portanti; insieme all’atrio corinzio – a sei o più colonne – è testimone dell’evoluzione registrata dalla casa italica e romana arcaica (priva di colonne) verso quella che adotta il peristylos nella versione del cortile colonnato tipico dell’abitazione ellenistica.
In alcuni casi le teorie di colonne saranno erette negli atrii principali di ingresso, altre volte alimenteranno la realizzazione di spazi secondari o di veri e propri peristili posti ad includere vasti giardini come nella famosa Casa del Fauno o nella Casa di Pansa a Pompei.
La domus ad atrio nella versione arcaica – chiusa e serrata nella sua organicità di spazio che vede nei giorni d’estate lo scontro fra la forte luce zenitale penetrante dal compluvium e la fresca ombra proiettata dalle falde della copertura – evolverà lungo il II e I sec. a. C. ampliandosi “alle spalle”, verso l’area dell’orto che sarà trasformato in giardino porticato sviluppando il modello del peristilio con stanze o interi quartieri residenziali disposti al suo intorno.
Tubi di scarico in terracotta a Pompei. Da ADAM (1988).
Discendenti fittili per lo scarico delle acque dal tetto. Pompei.
Anche nei peristili i costruttori saranno sempre attenti nell’orientare le falde dei tetti, ricoperti di tegole laterizie, con pendenze rivolte verso l’interno del giardino. L’acqua, scaricata lungo tutto lo sviluppo della grondaia o attraverso doccioni e discendenti puntuali, è raccolta al suolo attraverso canalette per essere poi scaricata in cisterne, dopo essere stata filtrata in vaschette di decantazione così come si nota nel grande peristilio della Casa del Fauno.
Strettamente legati ai percorsi dell’acqua – sia in discesa dai tetti che nel sottosuolo – troviamo tutti quei manufatti laterizi dalla configurazione cilindrica cava impiegati estesamente nell’antichità per la realizzazione dei discendenti dei tetti, per l’evacuazione dell’acqua sporca indisponibile all’uso, per le condutture idriche di reti ed acquedotti.
Frequenti ed evidenti in Pompei i tubi di laterizio per lo smaltimento delle acque piovane, incassati nelle pareti al fine di evitare ogni sporgenza dal piano murario, al pari dei discendenti legati allo scarico delle acque sporche delle latrine dei piani superiori delle case. In questi sistemi di condutture la conformazione geometrica dei singoli elementi laterizi prevede, nelle estremità, una riduzione di sezione al fine di poter conseguire efficaci giunzioni maschio-femmina sigillate eventualmente con malta di calce, questo specialmente nelle condutture idriche interrate.
A fronte dei procedimenti di raccolta e gestione dell’acqua piovana – caratterizzati dall’incerto ed imprevedibile approvvigionamento legato al regime delle piogge e dalla relativa comodità d’uso dell’acqua da attingere nelle cisterne – i romani, con grande ingegno ed impegno costruttivo, si dotano progressivamente di acquedotti con acqua corrente distribuita a pressione in ogni punto delle città; acqua proveniente da sorgenti, copiose e permanenti, spesso intercettate a molte decine di chilometri di distanza dagli insediamenti da servire.
Tubuli fittili per reti idriche di età romana. Museo archeologico nazionale di Sarsina.
Se nella fase centrale dell’impero Roma arriverà ad essere servita da ben undici acquedotti, è con la costruzione dell’Aqua Marcia (144 a. C.) che, per la prima volta, un acquedotto viene sopraelevato nel suo percorso mediante arcate diventando tema architettonico e di paesaggio. Assicurato il controllo militare dei territori che circondano Roma l’acqua può scorrere liberamente sopra la linea di terra utilizzando ampie e solide arcate in pietra o in laterizio, con luci standardizzate dell’ordine dei cinque metri.
La stessa grande quantità di acqua disponibile in Roma caratterizzerà le città della la Campania (fra le più ricche e densamente popolate regioni della penisola) dove s’impone territorialmente l’acquedotto del Serino posto ad approvvigionare Napoli, Cuma, Nola e la stessa Pompei. In posizione terminale è realizzata una grandiosa cisterna con una capienza di ben 12.600 metri cubi di acqua: la famosa Piscina Mirabile di capo Miseno, l’attuale Bacoli. Qui Agrippa, all’interno dell’imponente programma augusteo di opere pubbliche, costruisce un grande porto militare destinato a diventare la principale base navale di Roma nel sud dell’Italia; compito della cisterna è di assicurare una enorme riserva di acqua potabile per le esigenze dei militari e delle navi in partenza.
La Piscina Mirabile a Capo Miseno, (l’attuale Bacoli). L’interno ipogeo con i grandi pilastri cruciformi in tufo rivestititi di cocciopesto. (Ph. A. Acocella)
La Piscina Mirabile ci offre una spettacolare scenografia di teorie di arcate e pilastrate riunificate in sequenze prospettiche multiple. Siamo di fronte ad un magnifico e spettacolare spazio – alto 11,40 m con dimensioni in pianta di 25,45×66 m – coperto mediante arcate e volte poggianti, nella parte centrale dell’edificio, su quarantotto pilastri cruciformi in muratura costruiti con conci di tufo; sulle pareti e sui pilastri cruciformi è applicato l’insostituibile intonaco impermeabile in cocciopesto, ancora oggi perfettamente conservato sotto i depositi calcarei lasciati dall’acqua nei secoli.
La discesa nel suggestivo spazio ipogeo è resa possibile da due lunghe scalinate addossate ai muri perimetrali longitudinali, che consentono le periodiche opere di pulizia e di manutenzione. Al centro della cisterna è organizzato un bacino di decantazione dell’acqua dotato di una grossa apertura per lo svuotamento.
In questo nuovo contesto storico di abbondante disponibilità di acqua corrente anche in Pompei – dotata sotto Augusto di un acquedotto urbano – l’antica funzione dell’impluvium, quale dispositivo di raccolta dell’acqua, va progressivamente a perdere il suo originario significato funzionale mantenendo unicamente quello decorativo di bacino marmoreo arricchito da fontane e giochi d’acqua.
La planimetria generale della cisterna.
Con gli acquedotti non scompare però la necessità di cisterne; la consuetudine di rivestirle con intonaci impermeabili di cocciopesto, risultato dell’impasto di calce con granuli e polvere di laterizio, permarrà ancora lungamente.
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Note
* Il presente contributo è contenuto nel volume Alfonso Acocella, Stile laterizio II. I laterizi cotti fra Cisalpina e Roma, Media MD, 2013, pp. 76.