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Archeologia dell’eco-design

08 Maggio 2015




«Perhaps there should be no special category called “sustanaible design”. It might be simpler to assume that all designers will try to reshape their values and their work, so that all design is based on humility, combines objective aspects of climate and the ecological use of materials with subjective intuitive processes, and relies on cultural and bio-regional factors for its forms».
Victor Papanek, The Green Imperative


In questo articolo intendiamo proporre una riflessione sulla «archeologia dell’eco-design» attraverso gli scritti e le ricerche di designers e teorici del design (categorie frequentemente sovrapponibili) che, già nel periodo compreso tra l’inizio degli anni ’70 e fino agli anni ’90, evidenziavano il ruolo e le responsabilità del designer nei confronti dell’ambiente naturale e artificiale, ben prima cioè che il dibattito sull’eco-progettazione (progettazione sostenibile) e sull’eco-design (design sostenibile) prendessero l’importanza che occupano attualmente.

Adotteremo il termine di «archeologia» secondo l’accezione utilizzata da Michel Foucault in tre delle sue opere (Nascita della clinica: il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane. Una archeologia dello sguardo medico, 1969; Le parole e le cose, un'archeologia delle scienze umane, 1967; L’Archeologia del sapere, 1971). Una archeologia non è mai una storia lineare, ma è destinata ad informare le condizioni d’emergenza di eventi tra loro correlati e di nuovi saperi in un dato momento. In questo termine si ritrovano allo stesso tempo l’idea di archè (inizio, principio, emergenza degli oggetti di conoscenza) e l’idea di archivio (registro di questi oggetti). Non essendo l’archivio una semplice traccia del passato, l’archeologia cerca quindi di capire il presente.1 Ciò che chiameremo qui «eco-design», non si limita né all’eco-progettazione (progettazione sostenibile) né ai precetti dello «sviluppo sostenibile»; un approccio esclusivamente tecnocratico ai problemi ecologici è in effetti, a nostro avviso, insufficiente poiché ciò che è in gioco è piuttosto il riorientamento globale degli obiettivi di produzione dei beni e dei saperi, materiali ed immateriali.
L'itinerario proposto inizia con l’analisi dei testi di Victor Papanek, designer austro-americano nato a Vienna nel 1927. Agli inizi degli anni ’70, la prima crisi energetica segna una presa di coscienza collettiva riguardo alla necessità di concepire prodotti con un ridotto consumo energetico e all’esigenza di analizzare il loro ciclo di vita per ridurne l’impatto ambientale. Nel 1971 appariva la prima edizione di Design for the Real World2, in cui Victor Papanek invitava i designers a perseguire degli interessi che non fossero esclusivamente commerciali, proponendo loro un impegno sociale attivo nella ricerca delle soluzioni tecnologicamente più appropriate per una progettazione di prodotti e servizi utili alla società e rispettosi dell’ambiente.
La riflessione di Papanek sulle prospettive dell’eco-design è stata l’argomento di un’ulteriore pubblicazione nel 1995, The Green Imperative3 un testo che, oltre vent’anni dopo l’apparizione del primo, formulava nuove proposte per integrare la preoccupazione etica dell’ecologia alle pratiche dell’architettura e del design.

 


Victor Papanek, The Green Imperative. Ecology and Ethics in Design and Architecture, Londres, Thames & Hudson, 1995.
Victor Papanek, Progettare per il mondo reale, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1973.

 

Un’altra visone del design e del mondo: Design for the Real World
Il sottotitolo di Design For the Real World (Human Ecology and Social Change) introduceva efficacemente la prospettiva globale adottata da Papanek nel proprio approccio al design. Victor Papanek sviluppava una reazione violenta contro il design industriale della propria epoca, argomentata con dati statistici riguardanti i danni provocati da pratiche sprovviste di ogni responsabilità sociale e ecologica, di cui denunciava il cinismo.
     «Fra tutte le professioni, una delle più dannose è la progettazione industriale. Forse nessuna professione è più falsa. Il disegno pubblicitario, che tende a persuadere la gente ad acquistare cose di cui non ha bisogno, con denaro che non ha, allo scopo di impressionare altre persone che non ci pensano per niente, è quanto di più falso possa esistere. Subito dopo arriva il design, che appronta le sgargianti idiozie propagandate dagli esperti pubblicitari».4

Proponendo una visone estremamente larga di quel che dovrebbe essere il design, Papanek considerava come la maggior parte delle nostre azioni siano in stretta relazione con esso : parlare di design significa parlare dell’eterno tentativo dell’uomo di comprendere una realtà molto complessa ed in mutazione continua, cercando di imporle un ordine.5 Ciò che Papanek definisce «design» dev’essere innanzitutto «significante»: il che vuol dire, concretamente, che i materiali e gli utensili devono sempre essere utilizzati al meglio e che l’interazione tra gli utensili, i processi di trasformazione ed i materiali deve sempre favorire la configurazione che permette di risolvere un problema di concezione a costi minimi e nella maniera più efficace. Un design capace di prendere in considerazione l’ecologia sarebbe un design «rivoluzionario» perché sarebbe in grado di opporsi al postulato che ancora oggi governa le nostre società, basato sull’assunto che: «si deve consumare di più, sprecare di più, buttare via di più, e perciò distruggere la vita sulla terra».6 Se i problemi dell’ecologia investono ormai ogni individuo, il designer dovrebbe essere preoccupato, prima e più degli altri, quale esperto dell'analisi di fenomeni e dello studio di sistemi; la sua principale responsabilità dovrebbe essere quella di elaborare almeno alcune «ipotesi ispirate» riguardo i rischi che ci attendono e i modi per affrontarli, prima che sia troppo tardi.
Secondo Papanek l'insegnamento fondamentale del design è quello di considerare che «un sistema è fatto delle sue componenti e che, cambiando le singole componenti, cambierà anche il sistema».7

 

Edgard Morin, L’Anno I dell’era ecologica. Dialogo con Nicolas Hulot. Ambientalisti, scienziati e politici insieme per salvare il pianeta. Roma, Armando, 2007.

 

Tale affermazione mostra l’analogia con gli insegnamenti dell’ecologia che si diffondevano in quegli anni. Nell’articolo «L’Anno I dell’era ecologica»,8 scritto nel 1972, Edgar Morin ricordava che la nozione di ecosistema è una nozione globale, e comprende l’ambiente fisico (biotopo) e l’insieme delle specie viventi (biocenosi). Questo insieme costituisce un sistema organizzato in sé (le specie hanno delle relazioni di simbiosi, di parassitismo, di complementarietà, di gerarchia e di regolazione interna). C’è dunque un fenomeno d’integrazione tra vegetali ed animali (compresi gli umani) da cui risulta l’ecosistema come un nuovo essere vivente, allo stesso tempo estremamente resistente ed estremamente fragile: resistente perché si riorganizza continuamente, fragile perché i suoi equilibri possono essere alterati al punto di non potersi più ricostituire. L’uomo è per eccellenza un sistema aperto, la cui vita si alimenta all’esterno dell’ecosistema. Ora, tanto più il modo di funzionamento delle società umane si complica sotto gli effetti delle tecnologie, tanto più esse diventano dipendenti dall’esterno dell’ecosistema: un individuo abitante un paese sviluppato del XX° secolo consuma, per alimentarsi, una grande varietà di prodotti, una grande quantità di energia ed ha bisogno di un lungo periodo di apprendimento sociale e scolare del mondo esterno.
«Più un sistema è evoluto, vale a dire complesso e ricco, più è aperto. L’uomo è il sistema più aperto di tutti, il più dipendente nell’indipendenza. Mai la civiltà era dipesa da un numero così vasto di fattori ecosistemici e qui, per ecosistema, non intendo soltanto la natura, ma l’ecosistema tecno-sociale, che si sovrappone al primo e lo rende sempre più complesso».9

 

Jean Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, Milano, Mazzotta, 1974.



Si tratta dunque di ribaltare tutta l’ideologia occidentale che, almeno da Descartes in poi, ha fatto dell’uomo il solo soggetto in un mondo di oggetti, unità insulare ed autosufficiente, padrone del mondo che lo circonda. Si tratta anche di riconsiderare completamente la questione dello sviluppo industriale, senza tuttavia passare dall’esaltazione dell’industria ad un suo fanatico rigetto. Ci si pone di fronte la questione che Edgar Morin definiva, già nel 1972, «crescita controllata», un progetto che apre l’enorme problema politico di una concertazione alla scala planetaria. Se la questione ecologica si riducesse alle sue dimensioni esclusivamente tecniche ed economiche, sarebbe sufficiente sormontare gli ostacoli tecnici e costruire dei motori puliti, ridurre l’inquinamento, oppure sviluppare un «capitalismo ecologico», produttore e distributore di ciò che non è inquinante, di ciò che è sano, di ciò che è biologico. Ma se invece si intende collocarsi ad un livello fondamentale, si deve prendere in considerazione una ristrutturazione radicale dell’economia e dell’insieme della vita nella società. Si tratta della stessa esigenza rivendicata da Papanek quando definiva l’idea di «progettazione integrale»:
«La progettazione integrale coinvolge tutto: tenta di prendere in considerazione tutti i fattori e le variabili che bisogna tenere presenti quando si tratta di prendere delle decisioni. La progettazione integrale totale è rivolta al futuro. Cerca di considerare le tendenze nel loro complesso, di estrapolare continuamente i dati conosciuti e di interpolare tenendo conto degli “scenari” di quel futuro che tenta di costruire. La progettazione integrale totale è anticipatrice, è l’atto di pianificare e  di dare forma tenendo conto di tutte le discipline».10

Per concludere, «progettare per il mondo reale» significava per Papanek  osservare i veri problemi del nostro mondo e cercare di risolverli scegliendo un approccio ecologico, allo stesso tempo razionale e anticipatore. Questo atteggiamento si colloca esplicitamente all’opposto di una pratica del design orientata esclusivamente dal profitto, che opera attraverso pratiche quali l’«obsolescenza programmata», o l’espressione strumentale della moda che propone la stessa merce ad ogni stagione, riducendo l’azione del designer ad una banale operazione di styling.

 

Victor Papanek, Design for the real World, 1972.



Architettura vernacolare e cultura materiale extra-urbana
Nel 1995, Victor Papanek pubblica un altro testo teorico intitolato The Green Imperative11, nel quale amplia la propria riflessione dal design all’architettura (il sottotitolo dell’opera è «Ecology and Ethics in Design and Architecture»). La visione del design presentata in queste pagine è decisamente ambiziosa: il design riguarda la progettazione di macchinari, utensili, processi di produzione, e la sua attività ha una influenza diretta e globale sull’ecologia; esso deve dunque aspirare ad assumere un ruolo di ponte tra i bisogni e i desideri degli uomini, l’ecologia e la molteplicità delle culture. In generale, scrive Papanek, si considera che i problemi di salvaguardia dell’ambiente non siano presi in considerazione che alla fine del ciclo di vita di un prodotto (riciclaggio, inquinamento delle acque, dell’aria, della terra, ecc.). A suo avviso, al contrario, questa problematica dovrebbe intervenire in tutte le fasi del processo di progettazione - produzione (scelta dei materiali, imballaggio dei prodotti, trasporto dei materiali, controllo degli sprechi). Da cui la necessità di concepire un «Product Life Cycle Assessment» che possa valutare l’impatto ambientale di ciascuna delle fasi o degli aspetti della concezione-produzione. Questi principi che oggi sarebbero definiti di «eco-progettazione», sono tuttavia insufficienti a suo avviso se non vi si aggiunge la dimensione partecipativa. Il designer deve essere in grado di proporre delle scelte agli utilizzatori, delle scelte che possano permetter loro di partecipare alle decisioni che riguardano la loro propria esistenza, ma anche di comunicare con i designers e con gli architetti che sono alla ricerca di soluzioni per i loro problemi quotidiani. Ma la maggior parte dei progetti di design che comportano una dimensione ecologica sociale sono finanziati molto raramente dalle grandi imprese, a causa dei rischi di perdite economiche. La soluzione proposta da Papanek (che anticipa così il movimento contemporaneo dei «Fab Labs» e dei «Third places» di produzione) è di riorganizzare la produzione in piccole unità decentralizzate, da svilupparsi e proteggere con l’aiuto di contributi pubblici. Per quanto riguarda l’architettura, la dimensione ecologica è, secondo Papanek, particolarmente evidente nelle « lezioni dell’architettura vernacolare».12 A partire dalla meta del XX° secolo, architetti, antropologi e storici dell’arte hanno iniziato a manifestare un rinnovato interesse per l’architettura vernacolare rurale ed urbana. Edifici e complessi urbani che non erano mai stati seriamente studiati precedentemente, sono diventati oggetto di documentazione e ricerche in seguito all’esposizione «Architecture Without Architects» organizzata da Bernard Rudofsky al Museum of Modern Art di New York dal 9 novembre 1964 al 7 febbraio 1965.13 Nel catalogo della mostra Rudofsky affermava il suo desiderio di esplorare il dominio di una «architettura non codificata», vernacolare, anonima, spontanea, indigena, rurale: «La storia dell’architettura ortodossa mette l’accento sull’architettura e sull’opera individuale; ciò che ci interessa, qui, è l’impresa comunitaria».14

«Abbiamo molto da imparare de ciò che l’architettura è stata prima di diventare un’arte di specialisti. In particolare, i costruttori autodidatti sanno adattare le loro costruzioni (nel tempo e nello spazio) all’ambiente con un talento considerevole Anziché sforzarsi, come noi, a dominare la natura, essi traggono profitto estremo dai capricci del clima, dai vincoli, dalla topografia».15

 

Bernard Rudofsky, Architecture without Architects, A Short introduction to non-pedigreed architecture, New York: The Museum of Modern Art, 1964.

 

L’architettura vernacolare interessa particolarmente Papanek poiché essa non è solamente «auto-prodotta» e «auto-costruita», ma anche autonomamente concepita dagli stessi residenti, attori di una «auto-progettazione». Per secoli gli abitanti di queste architetture hanno collaborato attivamente con gli artigiani, per aggiungere un’ulteriore stanza ai loro spazi vitali, per progettare gli elementi di arredo delle loro abitazioni. Ancora una volta, non si tratta di sostenere il ritorno alle forme preindustriali dell’artigianato, quanto piuttosto di sottolineare la necessità di rinforzare le relazioni e gli scambi tra l’utilizzazione e la realizzazione, tra la produzione e la concezione, per fare in modo che ognuno riscopra l’interesse di reinventare, modificare, costruire gli edifici in cui abitare, gli utensili con cui lavorare e l’insieme del proprio ambiente. Il ruolo del designer e dell’architetto sarebbe quindi quello di inventare delle scelte possibili per gli abitanti e per gli utilizzatori, delle scelte suscettibili di permettere ad ognuno di riappropriarsi dei propri luoghi di vita e di poter collaborare con i progettisti, designers e architetti, alla ricerca di soluzioni concrete ai problemi di progettazione e di costruzione dell’habitat, degli oggetti e dei servizi. L’insegnamento dello studio delle forme e delle tecniche rispettose dell’ambiente, così come quello dei modi di vita locali, consiste quindi nell’ispirarsi dalla riscoperta del passato, per inventare i materiali, le abitazioni e gli oggetti di domani.

In continuità con le esperienze dell’Architettura radicale italiana svolte tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, l’attività di Superstudio16 successiva al 1972 sviluppava un’attività di ricerca nell’ambito dell’architettura e del design che oggi potrebbe essere definita « socio-ecologica», particolarmente evidente nella pubblicazione Cultura materiale extraurbana.17 Quella ricerca intendeva studiare le conseguenze delle trasformazioni prodotte dall’espansione urbana del boom economico sul territorio. Vi si denunciava il rischio della perdita definitiva di quelle forme di conoscenza e di creatività individuali, capaci di legare la società al proprio ambiente, causata dalla rapida trasformazione di un’economia tradizionalmente rurale in un’economia industriale. I risultati della ricerca mettevano in evidenza le conseguenze devastanti di uno sviluppo industriale che avanzava in contraddizione e in opposizione alle forme del territorio ereditate da una cultura rurale millenaria; conseguenze già denunciate, à partire dagli anni ’50, dall’analisi socio-politica di Pier Paolo Pasolini, che gli architetti dell’ambito radicale italiano condividevano per affinità intellettuale ed ideologica. In Italia, alla metà degli anni ’70, questa situazione aveva raggiunto la fase critica di non ritorno. La ricerca etnografica e pedagogica di Superstudio si configurava dunque quale tentativo di salvaguardia delle tracce di una «cultura materiale extra-urbana», ormai destinate ad essere conservate esclusivamente dietro le vetrine di musei etnografici, quali vestigia di un passato cancellato dall’industrializzazione; essa era organizzata in modo da indicare un metodo di «analisi sul significato degli oggetti nel loro ciclo di progettazione, produzione, uso e trasformazione partendo dall'esame delle strutture della cultura contadina».18 Questa analisi cercava di dimostrare che le forme degli utensili e degli spazi della cultura rurale, forgiati dalla necessità, dall’uso, dalle consuetudini, costituivano da sempre un legame essenziale tra l'identità degli abitanti di un territorio e l’ambiente.

 

 

Ezio Manzini, Artefatti: verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale, Milano, Edizioni Domus Academy, 1990.



Secondo gli autori, gli oggetti repertoriati erano il risultato della sintesi di una comprensione «creativa» dell’ambiente e della natura; rappresentavano l’espressione tangibile dell’esperienza del lavoro ed erano stati gli elementi federativi di comportamenti collettivi; rappresentavano la traduzione in forme di una tradizione le cui tracce ed influenze erano, in quegli anni, ancora riconoscibili nella forma del territorio italiano, una condizione culturale ed esistenziale perduta con la trasformazione, troppo rapida, del contadino in operaio e quindi in acquirente:

«il contadino, derubato delle informazioni tecniche, è costretto dapprima a vendere la propria forza-lavoro, proletarizzandosi e in seguito, derubato della capacità creativa, diviene consumatore».19

Citando Baudrillard20, gli autori attribuivano a quegli utensili un ruolo di resistenza di fronte al potere ormai onnipresente della merce.
Gli  architetti di Superstudio consideravano che nell’«enorme patrimonio di conoscenze» testimoniato dagli oggetti/utensili e ambienti di quella ricerca potevano «rintracciare non solo le radici della nostra scienza, ma anche la possibilità di una scienza diversa».21 Attaccavano il sistema di divisione del lavoro che, attraverso la frammentazione e la separazione, sconvolgeva l’equilibrio psicofisico della produzione. Consideravano che la realtà ancestrale di questi oggetti permetteva di analizzare correttamente

«il diretto rapporto tra l'uomo e la natura, tra l'uomo e gli oggetti che servono a soddisfare i suoi bisogni reali utilizzando cognizioni, intelligenza e creatività che il sistema di divisione del lavoro ha reso inutili per la produzione di merci».22

Lungi dal compiacersi di una semplice nostalgia del passato, gli autori intendevano proporre dei nuovi argomenti di riflessione sul divenire degli oggetti e sul ruolo dell’architetto e del designer. Per questa ragione il metodo di ricerca adottato non era quello, strettamente disciplinare della progettazione, così come era intesa e praticata nelle facoltà di architettura, ma piuttosto prefigurava «un'attività diversa in cui coincidono progetto, costruzione uso e riciclo» e in cui «l'utilizzazione del linguaggio parlato, della descrizione libera dagli strumenti specialistici del rilievo, la ricostruzione o la reinvenzione degli oggetti, costituiscono tutti metodi di riappropriazione dell'attività progettuale vista come naturale attività fisica».23 Questa ricerca sulle culture materiali extraurbane prendeva come oggetto di studio tutte le culture considerate come «marginali» dall’ideologia industriale, dominante in quegli anni, ormai incapace di attribuire valore a forme di percezione, concezione e trasformazione della realtà, diverse da quelle proprie.

 

Verso Un’ecologia degli ambienti artificiali
Sempre nell’ambito del design italiano (che ha avuto ed ancora oggi mantiene una portata internazionale), vorremmo evocare  la riflessione di Ezio Manzini, attraverso due opere (La Materia dell’invenzione24 e Artefatti. Verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale25). Il primo inaugurava le questioni poste dell’autore su di un mondo in via di artificializzazione, in cui le possibilità della materia (lungi dallo scomparire in una pretesa «dematerializzazione» generalizzata ) non fanno che moltiplicarsi grazie all’invenzione di nuovi materiali ed al progresso della tecno-scienza: «Il materiale si “intellettualizza“, tale è il dato sconvolgente della fine del XX° secolo: i termini Invenzione e Materia si sovrappongono».26 In questo nuovo contesto, Manzini s’interrogava sulla possibilità di dare vita ad una nuova cultura, fondata sulla circolarità dei processi di produzione e di consumo, ispirata ai «cicli naturali» per realizzare dei «cicli dell’artificiale», cicli destinati ad integrare (a partire dalla progettazione) la preoccupazione del riciclaggio, ma più in generale, della salvaguardia del fragile substrato naturale sul quale poggia tutta l’attività umana. Si tratta dunque di concepire una nuova «ecologia dell’ambiente artificiale», progetto che sarà l’oggetto della seconda opera pubblicata nel 1991.

Manzini sottolineava la complessità del nostro ambiente artificiale, ma anche la nostra incapacità di coglierne la molteplicità. La crescente artificializzazione dell’ambiente (e dunque il suo carattere di realtà concepita e prodotta dall’uomo) diventa, paradossalmente, sempre meno leggibile. Manzini constatava quindi un’accelerazione generalizzata : dagli inizi del XX° secolo, l’ambiente artificiale si è messo in movimento con una accelerazione progressiva che ha provocato lo sconvolgimento completo delle nostre esistenze. La velocità dei nuovi sistemi tecnologici introduce una temporalità di cui la nostra cultura non aveva ancora fatto l’esperienza, «cosicché il mondo sembra perdere quella stabilità e quel peso che gli avevamo attribuito, al punto di sembrare fluido, leggero e, soprattuto, inconsistente».27 D’altra parte, i nostri nuovi ambienti artificiali sono abitati da oggetti ibridi e la nostra idea tradizionale di ciò che è un oggetto, dev’essere riveduta e corretta. L’oggetto possiede ormai una doppia natura: quella di oggetto-protesi (capace di aumentare le nostre possibilità biologiche a dei fini ben precisi) e quella di oggetto-segno, supporto significante di significati potenziali. Tuttavia questo schema binario è diventato oggi insufficiente : l’esistenza di oggetti capaci di assolvere a delle funzioni complesse (elaborare, memorizzare e trasmettere informazioni) implica un’estensione di questo modello. Ciò che si profila oggi è una sorta di « superprotesi virtuale» dell’informazione organizzata sotto forma di strumento.
Nella prospettiva di inventare una nuova relazione tra l’uomo e il suo ambiente Manzini proponeva come punto di partenza l’interrogazione del termine « fare»: «che significa oggi progettare e produrre? Perché e per chi progettiamo e produciamo?»28 Questa prospettiva del rapporto con l’ambiente artificiale s’ispira fortemente alla concezione dell’ecologia sviluppata da Gregory Bateson in Verso un'ecologia della mente29, studio dell’interazione e della sopravvivenza delle idee. In questa prospettiva ecologica l’ambiente artificiale contemporaneo appare, da una parte, come il terreno di una competizione tra prodotti e produttori e, dall’altra, come un ambito fortemente limitato, definito dal limite di saturazione fisica, dai limiti di tempo in relazione alla durata di utilizzazione dei prodotti e dei servizi, nonché dal limite cognitivo in relazione alla loro comprensibilità. Da una parte, esistono dei limiti ecologici tradizionali (la rarità delle risorse, le conseguenze dovute all’immissione dei rifiuti nell’ambiente); dall’altra, ci sono i limiti del soggetto utilizzatore, che si adatta male alla dematerializzazione progressiva degli oggetti con i quali interagisce. Secondo Manzini, gli assi del nuovo atteggiamento ecologico da adottare sono dunque i seguenti : la necessità di preservare l’equilibrio fisico, quella di salvaguardare la ricchezza sensoriale dell’esperienza umana, di riscoprire la sua ricchezza relazionale e di affermare la capacità dell’uomo di intervenire sui suoi ambienti quale soggetto inventivo.
«Cerchiamo di considerare gli artefatti non come delle macchine, per le quali il nostro principale obiettivo sia l’automazione ed un minimo di manutenzione, ma piuttosto come se si trattasse delle piante del nostro giardino. Cerchiamo d’immaginare degli oggetti che siano gradevoli e utili come può esserlo un albero da frutta : degli oggetti durevoli e con una vita propria, degli oggetti che, come un albero, siano apprezzati tanto per ciò che sono quanto per ciò che fanno, degli oggetti che rendano un servizio e reclamino delle cure. Intraprendere questo cammino presuppone un cambiamento radicale rispetto alle attese ordinarie di quel che è un prodotto. Presuppone un rovesciamento di tendenza nella relazione che s’installa tra oggetti e soggetti, ovvero, una nuova sensibilità ecologica: prendersi cura degli oggetti può essere una maniera di prendersi cura di questo ‘oggetto’ più grande che è il nostro pianeta»30.

 

Adolfo Natalini, Lorenzo Netti, Alessandro Poli, Cristiano Toraldo di Francia, Cultura materiale extraurbana, Firenze, Alinea, 1983.

 

Nella redazione di questo articolo, la nostra intenzione è stata quella di affermare l’attualità dei testi fondatori presi in esame per suggerirne la lettura, fondamentale affinché il dibattito sull’eco-design non si riduca ai soli aspetti tecnici dell’eco-progettazione (progettazione sostenibile), ma possa invece integrare la dimensione sociale, filosofica, estetica di queste problematiche, al divenire dei nostri ambienti naturali e artificiali. Lo studio di questi autori permette di apprezzare pienamente il senso del termine «design», e se nel termine «design» si percepisse nuovamente la capacità di organizzare l’insieme del sistema di progettazione - produzione e degli scambi del sistema con i nostri ambienti, allora potremmo proporre di eliminare definitivamente il prefisso «eco-» che al «design» è imposto dalle preoccupazioni per il nostro futuro.

 

Manola Antonioli et Alessandro Vicari

 

Il presente saggio è tratto da G. Bertrand, M. Favard, Poïetiques du design. Eco-conception?, Paris, L’Harmattan, 2015.

 

 

Note
1 Cf. Judith Revel, definizione di «Archéologie» in Dictionnaire de Foucault, Paris, Ellipses, 2008, p. 14.
2 Victor Papanek, Progettare per il mondo reale, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1973.
3 Victor Papanek, The Green Imperative. Ecology and Ethics in Design and Architecture, Londres, Thames & Hudson, 1995.
4 Victor Papanek, Progettare per il mondo reale, op. cit., p. 7.
5 Ibid., p. 15.
6 Ibid., p. 226.
7 Ibid., p. 244.
8 Edgard Morin, L’Anno I dell’era ecologica. Dialogo con Nicolas Hulot. Ambientalisti, scienziati e politici insieme per salvare il pianeta. Roma, Armando, 2007. Questa pubblicazione raccoglie dei testi scritti da Morin tra gli anni ’70 e il 1989.
9 Ibid., p. 22.
10 Victor Papanek, Progettare per il mondo reale, op. cit., p. 302.
11 Victor Papanek, The Green Imperative. Ecology and Ethics in Design and Architecture, Londres, Thaes & Hudson, 1995 ( réed. 2003). 12 Cf. Victor Papanek, The Green Imperative, op. cit., chap. 6 «The Lessons of Vernacular Architecture».
13 Bernard Rudofsky, Architecture without Architects, A Short introduction to non-pedigreed architecture, New York: The Museum of Modern Art, 1964. Il catalogo dell’esposizione, Architettura senza architetti: una breve introduzione all’architettura non blasonata, è stato tradotto in italiano e pubblicato nel 1977 da Editoriale Scientifica.
14 Bernard Rudofsky, Architecture without architectes, op. cit., p. 8. (Trad. degli autori) 15 Ibid. p. 9. (Trad. degli autori) 16 Studio di architettura fondato a Firenze nel 1966 da Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia, con Roberto Magris, Alessandro Magris, Giampiero Frassinelli, a cui in seguito si aggiunge Alessandro Poli.
17 Adolfo Natalini, Lorenzo Netti, Alessandro Poli, Cristiano Toraldo di Francia, Cultura materiale extraurbana, Firenze, Alinea, 1983 (opera realizzata durante il corso di Plastica ornamentale tenuto dagli autori tra il 1974 e il 1977 alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze).
18 Ibid., p. 8.
19 Ibid., p. 8.
20 Cf. Jean Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, Milano, Mazzotta, 1974.
21 Adolfo Natalini, Lorenzo Netti, Alessandro Poli, Cristiano Toradlo di Francia, Cultura materiale extraurbana, op. cit., p.8.
22 Ibid. p. 9.
23 Ibid. p. 9.
24 Ezio Manzini, La materia dell’invenzione, Milano, Arcadia, 1986.
25 Ezio Manzini, Artefatti: verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale, Milano, Edizioni Domus Academy, 1990.
26 Ezio Manzini, Artefacts. Vers une nouvelle écologie de l’environnement artificiel, trad. fr. Paris, Editions du Centre Pompidou, 1991, p. 12. Prefazione di François Dagognet all’edizione francese.
27 Ibid., p. 28.
28 Ibid., p. 80.
29 Gregory Bateson, Verso un'ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1977.
30 Ezio Manzini, Artefacts, op. cit., p. 246-247.


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