Oggetti sempre più soggetti
In merito agli artefatti, alle cose create artificialmente, si può certamente partire da una constatazione. Essi sono in relazione con il carattere dell’umano, con il suo evolversi, con il suo dispiegarsi e manifestarsi. Ne rispecchiano possibili ripiegamenti e cambi di rotta.
Gli oggetti sono al passo coi tempi. È evidente che attraverso di essi il tema dell’innovazione, del cambiamento, corre molto più veloce che non nell’ambito dell’architettura.
Perciò risulta interessante prendere in considerazione le implicazioni di natura antropologica a cui rimandano, così come le diverse connotazioni estetiche che ne derivano.
Il legame con le discipline filosofiche e sociologiche, dunque, è molto marcato, oggi più che mai, considerato da una parte l’ingente quantità di oggetti prodotti, dall’altra il loro porsi su un piano sempre più allineato a quello dell’umano, tanto da diventare proseguimento dell’umana presenza. Gli oggetti, infatti, sono sempre più protagonisti. Capaci di esprimersi in maniera articolata, di definire ambienti, o anche solo di suggerire emozioni.
Chris Kabel, Sticky lamp, lampadine adesive, Droog, 2002
Si tratta, allora, di considerare le sfaccettature dell’umano, le posture dell’umano, a partire dagli stessi oggetti usati quotidianamente e il tratteggio estetico che ne deriva.
Gli oggetti finiscono per essere misura del tempo che passa (libreria di legno, di metallo, di plastica, in fibre di carbonio), prova a tema (sedia a sdraio, chaise longue, dormiese), ambientazione circoscritta (attrezzi da campeggio, attrezzi da giardino), verifica, insomma, di uno stato esistenziale altrimenti “disabile”, perché evidentemente gli oggetti abilitano allo svolgimento delle azioni quotidiane e, soprattutto, stimolano reazioni, innescano forme diverse di socialità, ne guidano i sensi possibili, portandosi dietro un bagaglio ricco e vario di considerazioni: 1) di natura estetica, inerenti il dna delle proprie sembianze; 2) di natura antropologica, inerenti l’intensità del rapporto con gli altri; 3) di natura pratica, inerenti il grado di utilità/innovazione introdotto e di ricadute positive sul sociale.
In questa direzione, vorrei partire da alcune considerazioni di Michel Maffesoli, contenute nel saggio L’oggetto soggettivo. O il mondo cristallizzato1. Testo che descrive molto bene certo “protagonismo” degli oggetti, come si verifica e che genere di valori estetici ne derivino.
Maffesoli, filosofo di formazione, fa approdare l’estetica sui territori fertili della sociologia, animandola di possibilità. Perché, in sostanza, secondo il noto intellettuale francese, è nell’incontro con gli altri che ne esce vitalizzata, come pratica sociale di condivisione del bello. Questo approccio risulta particolarmente interessante nel momento in cui si consideri la sfera degli oggetti d’uso, dove è proprio l’usabilità che può essere spesa a livello percettivo per una valutazione estetica. Con un gioco di parole, direi: è la “commercializzazione” del bello il vero marchio estetico (“commercializzazione” intesa come circolazione del bello, diffusione del bello). Vedremo poi meglio il perché.
Nel saggio citato, Maffesoli sottolinea il carattere di soggettività contenuto negli oggetti. Gli oggetti finiscono per essere “soggetti”. E il mondo una forma di cristallizzazione, ossia una forma di visione intensificata, eccentrica, a partire dalle mille cose che ne dispiegano “oggettivamente” una molteplicità di significati.
«L’oggetto come concentrato del mondo – afferma Maffesoli, gli oggetti che ci contornano con insistenza hanno una funzione omeopatica: ci abituano alla estraneità della natura. Pertanto favoriscono la reversibilità tra i due mondi della natura e della società. Nel contempo ne palesano anche l’unità»2.
Ronan et Erwan Bouroullec, Pol sofa, Kartell, 2007
Con altre parole, direi che potremmo pensare agli oggetti come “scarti nobili” del conflitto tra naturale e sociale, che ne misurano di volta in volta la distanza acquisita.
Quindi Maffesoli fa riferimento a un “ordine simbolico oggetticale”. Cosa vuol dire? Vuol dire che gli oggetti non sono semplici oggetti ma sono espressioni simboliche di qualcosa, di desideri, di azioni, di comportamenti. E potremmo dire, la loro funzione progettante può essere figurata in quella “cristallizzazione” del mondo detta. Questo il loro disegno complessivo. Ossia, momentaneamente gli oggetti includono significati del mondo, ne riflettono e rispecchiano (come un cristallo) l’intima natura e allo stesso tempo (come un cristallo), ne diffondono l’aura.
In questo direzione va inteso il termine “oggetticale”. Esso rappresenta una sorta di declinazione colta dell’oggetto puro, di certe sue caratteristiche. Certe sue caratteristiche oggettive – fare ambiente, comunicare, ecc. – prevalgono, trasbordano dall’oggetto e diventano protagoniste, come in un soggetto qualsiasi che diventa eccentrico per i suoi propri caratteri: solitudine, noia, bellezza, bruttezza. L’“oggeticale” parte dall’idea che l’oggettività, una volta declinata, interscambiata (“commercializzata”, per riprendere quanto sopra detto), può assumere valenze soggettive, e quindi simboliche di certi comportamenti.
Infatti, secondo Maffesoli (che riprende il pensiero di Georg Simmel), «più che essere semplicemente limitato dalla sua materialità l’oggetto possiede ‘un pensiero sovra-individuale’ che introduce alla complessità del vasto mondo sociale»3.
L’estetica serve
Ed è questo pensiero sovra-individuale a connotare dal punto di vista estetico gli oggetti. Ossia l’estetica serve a sublimare l’oggettivo, lo rende spirituale e rivela la dinamica interna che lo anima, e non, invece, la sua pura bellezza. In fondo, direi, è la stessa cosa che avviene nei confronti di un individuo (non a caso qui stiamo facendo riferimento alla sfera degli oggetti/soggetti…), nel momento in cui si va oltre le sue sembianze fisiche e si cerca, invece, di capire cosa lo “animi”: bontà, passione estrema, verità, illusione, generosità, perfidia, ecc. Quindi si tratterebbe di una dimensione estetica collegata alla tensione interna delle cose dove rispecchiarsi, dove riconoscere parte del proprio mondo, della propria storia, del proprio essere uomini anche attraverso il loquace apparire delle cose.
Markus Nevalainen (Valvomo), Light Pillow, Promotional furniture exhibition, 2007
Maffesoli è d’accordo con Jean-Marie Guyau (1854-1888), esponente della cosiddetta “estetica sociologica” che in sostanza affermava “l’estetica serve”. Scrive Maffesoli: «Senza timore di banalità o di ingenuità, e ricordando che le banalità sono sempre buone da dire, possiamo ricordare che il bisogno e il desiderio sono gli elementi costitutivi dell’architettura individuale e sociale. M. Guyau ce lo ricorda con questa severa formula: “il bisogno e il desiderio… quello che serve alla vita, ecco il criterio originario e materiale dell’estetica”. Esiste quindi un intimo legame tra la “genesi del sentimento estetico” e la storia dei bisogni e dei desideri. Questo sociologo misconosciuto, ispiratore di Nietzsche e di Durkheim, ha quindi messo l’accento sull’aspetto vitalistico dell’estetica, sul fatto che quest’ultima non è superflua, più o meno distaccata dal reale, ma ne è un elemento strutturale. L’estetica serve. Paradosso dinamico che ci dimostra come sia possibile legare bellezza e funzionalità. L’utile e il piacevole del senso comune. Una simile congiunzione è alla base dell’“oggetticale”»4.
In un certo senso, direi, bisogno e desiderio appartengono al sociale e ritornano ad esso attraverso l’estetica. Perciò quest’ultima non avrebbe niente di frivolo ma, invece, servirebbe a rimettere in circolo, sotto altre vesti, l’umano allo stato brado, sintetizzandone il divenire, ossia rendendolo “sintetico”, misurabile, tangibile, osservabile, come è insito nel verbo “obicere” che sta alla base dell’“obiectus”, ossia “mettere di fronte”.
Come nota Sergio Givone a proposito di Guyau e dei risvolti sociologici della sua estetica (con riferimento alla raccolta di saggi citata), secondo il filosofo francese «l’arte comporta sempre un doppio movimento: di esposizione e di stimolazione. Esponendo la vita al continuo oltrepassamento delle sue forme, stimola ampie reazioni che chiamano in causa l’assetto della società […] perciò “la legge interna dell’arte è di produrre un’emozione estetica a carattere sociale”».5 L’arte quindi, secondo Guyau, agirebbe come produttore di socialità: «Il piacevole diventa bello nella misura in cui implica un di più di solidarietà»6.
Questo genere di considerazioni lo possiamo ora estendere al campo degli oggetti d’uso quotidiano e alla loro capacità di mutare continuamente gli assetti del sociale, incoraggiandone il rinnovamento, la revisione costante. Gli stimoli generati nella profusione di oggetti, nel loro espandersi e imbastire dialoghi con l’umano, ha inevitabilmente a che fare con l’idea del rinnovamento, della rigenerazione perenne secondo le oscillazioni di un adattamento continuo tra uomini e cose prodotte per ingannare il tempo dell’attesa.
Maffesoli, infatti, afferma che gli oggetti «Possiedono una forza intrinseca che fa del vizio virtù: questa cosa (res) reificante per costruzione nondimeno induce una crescita della società. La statica produce il dinamismo, è questa la naturale forza di creazione dell’“oggetticale”».7
Marcel Wanders, Lounge Chair, Louis Vuitton, 2016
Ancora una volta, quindi, viene sottolineato il fatto che gli oggetti non sono cose inerti.
L’“oggetticale” è, insomma, una funzionalità con un’aura intrinseca. O anche un “effetto di senso solidificato”. È un oggetto che può declinare il suo essere oggetto e quindi assumere significato.
Questo il punto fondamentale. Perciò possiamo parlare di “oggetto soggettivo”.
Allo stesso modo, sono gli stessi legami (e i leganti) sociali e certa creatività dei comportamenti a cui gli oggetti possono rimandare che finiscono per assumere valore estetico.
Maffessoli fa riferimento al concetto di “reliance” (legame, collegamento, secondo l’etimologia latina della parola “religare”, “ciò che mi lega a”), sempre riprendendo Simmel, che porta a pensare alla società come a qualcosa di estremamente vitale, dove “soggetti eterogenei entrano tra loro in relazione”, mentre tutto il pensiero sociologico della modernità aveva preteso di dimostrare che partendo dal concetto di società, dalla definizione generale di società, sarebbe stato possibile capire cos’è che fonda e tiene insieme i legami sociali8.
Aspetti che oggi sono stati accentuati da Internet, dove il concetto di “reliance” è praticamente tutto Basti pensare al termine più gettonato: link, e al legame istantaneo che nasce tra cose, persone, fatti, avvenimenti… eco istantaneo che moltiplica, avvicina, confronta, proietta, chiarisce e si dirada.
Da altri punti di vista, lo stesso Maffessoli ha sottolineato il carattere “ludico” e “immaginativo” delle comunità in rete che stanno grattando, in un certo senso, la patina dura del capitalismo, quella volontà di convogliare le energie tutte in una sola direzione, mentre invece, queste nuove forme di socializzazione finiscono per porsi in modo alternativo, puntando a creare modi di essere alternativi a quello corrente9.
«Il ludico e l’immaginario sprigionati dalla vita quotidiana, nelle reti digitali, in Facebook, MySpace, Second Life, nelle tante feste della musica, notti bianche e in tutte le altre situazioni in cui lo spirito della vacanza trionfa sull’economia, sono eventi che destrutturano fatalmente il capitalismo perché non rientrano nella sua logica interna»10.
Non solo. Rispetto all’azione comunitaria sprigionata in Internet, si possono fare ulteriori considerazioni, poiché il cambiamento effettuato è molto profondo, soprattutto se si va oltre certo genere di senso comunitario, oltre Facebook o Second Life… Direi che il contributo creativo che può essere rilevato nella rete vada oltre il ludico, tanto da capovolgersi nel suo opposto, diventando qualcosa di utile per la comunità, servizio per la comunità.
Ad esempio, recentemente Ezio Manzini e François Jégou, hanno fatto riferimento al concetto di “comunità creatrici”. Quelle comunità che in Rete incoraggiano forme di comportamento tali da contribuire creativamente alla quotidianità. È il cosiddetto “design dei servizi” che nella rete ha preso sempre più forza e significato, votando il tema della creatività a quello della possibilità di essere meglio operativi, più attrezzati per vivere nelle metropoli, sprigionando valori estetici in merito ai propri comportamenti di vita11.
Secondo i due autori, è possibile estendere l’azione progettuale all’intera comunità, cosicché ognuno diventi fautore di idee e di processi di progressivo miglioramento del vivere collettivo. In breve, la società stessa può diventare oggi un “grande laboratorio di idee e di innovazioni inerenti al quotidiano”: dalle banche del tempo ai numerosi servizi auto gestiti dal sociale per l’assistenza agli anziani, ai bambini, ecc. Tutti comportamenti che oggi sono alimentati dalla rete e dalla possibilità di estensione illimitata e diffusione capillare degli stessi.
Per quanto riguarda la critica accesa alle visioni unitarie e univoche della cosiddetta “modernità” sul sociale e su una crescita uniformante improntata a “un bello” standard dove la forma doveva essere aderente alla funzione, si possono fare altre considerazioni finalizzate ad una valutazione critica più soft rispetto al cambio di rotta che ha segnato gli sviluppi successivi della progettazione in ogni campo, fino ai nostri giorni, dal design dei prodotti all’architettura. Inizialmente, infatti, il credo era uno soltanto: creare oggetti uguali per tutti, funzionali, belli, economici grazie ai prodigi della produzione meccanizzata, della produzione seriale, come affermò uno dei più illustri teorici del Movimento Moderno, Walter Gropius, estendendo tali considerazioni alla stessa abitazione e all’intera organizzazione della vita urbana. Basti pensare ad una delle realizzazioni-manifesto del Bauhaus, la lampada da tavolo progettata da Karl J. Jucker e Wilhelm Wagenfeld nel 1923 utilizzando metallo e vetro, dove ogni funzione è svelata nel dettaglio (il cavo viene fatto passare per un tubo di vetro trasparente), mentre la forma complessiva deriva dall’assemblaggio di semplici corpi primari.
In fondo, gli aspetti più interessanti che hanno caratterizzato l’affermarsi di un modo di pensare architettura e paesaggi domestici con occhio “moderno”, riguardano il riscatto di intere masse di gente comune che a un certo punto “trovano casa”, allineate e visibili a vasta scala, che scoprono senso della bellezza nel quotidiano, che carpiscono i segreti di una vita comodamente attrezzata di tutto, un tempo prerogativa di pochi privilegiati.
Ecco. Questo credo iniziale, di grande respiro teorico, di grande portata, perché avvicinava il progetto alla gente comune, portava il buon design in ogni casa, anche nelle più modeste (tutti avrebbero potuto usufruire di una sedia ben progettata, di un tavolino bello, funzionale ed economico), pian piano ha lasciato il posto al manifestarsi del libero pensiero sulle cose, ossia alle cose come manifestazione del libero pensiero.
Gli oggetti capitalizzano se stessi
Dunque, gli oggetti di design, che inizialmente hanno contribuito alla capitalizzazione del mondo, ad ingrossare i capitali dei produttori, ora direi che capitalizzano se stessi.
Si tratta di una rivincita? In un certo senso si. Più che altro si tratta di una forma di riappropriazione del pensiero progettante, che si presenta non più irretito dalla macchina ma esaltato – diciamo così – dagli stessi processi di produzione, fino a uno sganciamento ideale, che comporta risultati inaspettati, che possono anche non essere in linea con i progetti capitalistici, possono anche essere in disaccordo, indicare altre strade.
Certamente la sostituzione della “macchina” con il “computer”, il passaggio dall’epoca della meccanizzazione all’epoca della elettronica, ha portato a dei cambiamenti significativi. È stato possibile produrre la diversità “in serie” ed esaltare, innanzitutto, la singolarità di ciascuno contro l’idea unica di un solo genere di utente, di una massa di utenti che hanno tutti bisogno delle stesse identiche cose. In un certo senso, l’individuo ha preso parola e lo ha fatto anche attraverso l’utilizzo delle cose. Fino a che le cose hanno acquisito sempre più autonomia, importanza e potere seduttore. Quel “sex appeal dell’inorganico”, per citare Mario Perniola, che fa sì che gli uomini guardino alle cose non più soltanto come oggetti inanimati, ma come oggetti che hanno un’anima: Philippe Starck insegna. Oggetti a cui ci si affeziona non per il valore economico come avviene per gli oggetti di antiquariato, ma per la carica significante in essi contenuta12.
Philippe Starck, Diki Lessi (Maria Beltrami), TOG, 2014
Fino a che gli utenti sono diventati “gruppi di utenti”, o per tornare a Maffessoli, “vere e proprie tribù”.
Il designer da parte sua, non è più un semplice risolutore di problemi, ma un uomo in grado di esporre una propria concezione del mondo attraverso il progetto degli oggetti.
In un’intervista di chi scrive a Gijs Bakker, il fondatore di Droog Design (Design Asciutto), il designer olandese fa riferimento al “designer autore”13. Il progettista diventa un po’ filosofo. Il design diventa una forma di pensiero, e non un semplice dare forma alle cose. Si cerca invece di dare forma al proprio pensiero e lo si fa progettando. Del resto anche per i pensatori del moderno è avvenuta la stessa cosa. Diciamo solo che oggi le forme di pensiero si sono moltiplicate, il mondo è maturo perché questo avvenga.
Nel libro appena citato, infatti, prendo in considerazione approcci al design completamente diversi tra loro, ma rispondenti ad esigenze specifiche della contemporaneità, la quale non è più contenibile in forme utopiche di grande respiro, ma – direi - in sollevamenti di pensiero strategici e circoscritti.
Dunque, come ha recentemente affermato il designer Richard Hutten, «il moderno è stato reso vecchio da chi non ha capito che non era uno stile da copiare, ma una filosofia da capire»14.
Credo che questo sia fondamentale per comprendere oggi certo protagonismo degli oggetti che non è assolutamente in contraddizione con il passato: se “la forma doveva seguire la funzione” era in relazione ad un grande progetto esistenziale: quello di vivere tutti in maniera più pratica, più disinvolta, diffondendo il bello a tutti i livelli sociali. Questa è la filosofia del funzionalismo. Ad essa oggi ne seguono molte altre.
Non è pienamente vero, quindi, che gli esponenti del Movimento Moderno si siano adoperati per separare l’utile dal bello, l’utile dal piacevole; ma in relazione al progetto, potremmo dire, il bello per i moderni era il raggiungimento di una esistenza perfettamente funzionante, in sintonia con la macchina e con i suoi attraenti meccanismi, né più né meno che oggi il fascino muto degli elettroni. Il bello stava nel riuscire a creare eleganza nelle forme funzionali, a fare estetica all’interno dei processi di funzionamento evoluto del sociale. In questo senso, la standardizzazione dei comportamenti non era certo un sacrificio, ma il tramite per raggiungere un così alto obiettivo, che avrebbe dovuto forgiare la società del futuro, costruire democrazia, disporre gli animi verso forme sempre più chiare di democrazia.
Pensiamo, ora, ad un altro grande settore degli oggetti d’uso di oggi: gli “oggetti protesi”, ossia quegli oggetti con cui interloquiamo, come se fossero persone, a cui chiediamo informazioni e prestazioni tra le più diverse. E che spesso ci sopraffanno. Basti pensare ai libri di Donald A. Norman, che di questo genere di sopraffazione ha fatto il punto chiave delle sue critiche mordaci al design, dove in senso estremo si parla di oggetti che tendono a strafare sino a confondere l’umano, a creargli problemi15.
È stato soprattutto l’ingresso ufficiale degli oggetti nell’universo immateriale che ne ha intensificato il protagonismo, contribuendo per aspetti differenti, a dare loro un’anima, quell’afflato che rende tutto comprensibile e discorsivo a partire dal nulla. Tanto da lasciare senza parole, incoraggiando dialoghi prolungati, dove ritrovare mondi altri.
L’architetto Toyo Ito, riporta le sensazioni provate da un grafico davanti al computer che racconta: «quando sto seduto davanti a un computer ho la sensazione di chi sta congiunto a un altro mondo, come quando si sta con i piedi a molo in riva all’acqua». Entrando nello schermo di un computer il grafico si rende conto della possibilità di orientare il proprio sé all’esterno; un sé che è abituato ad essere eccessivamente introverso16.
Anche in questo caso siamo di fronte ad una forma di protagonismo dell’immateriale. Protagonismo che è apparso chiaro sin dall’inizio. Basti pensare alla mostra Les Immatériaux, organizzata a Parigi, presso il Centre Pompidou nel 1985, promossa da Jean-François Lyotard. Nel saggio principale del catalogo omonimo si legge: «Come i materiali fungono da contropartita del soggetto che li padroneggia ai propri fini, così nel loro concetto contraddittorio ‘gli immateriali’ significano un Materiale [matériau] che non è più materia (‘prima’ oppure no) destinata a qualche progetto e che evidenzia la dissoluzione del lato ‘umano’, parallela a quella subita da esso stesso. […] L’aggettivo sostantivato ‘umano’ designa un antico campo di conoscenze e di intervento, ora attraversato e condiviso da tecnoscienze, le quali vi scoprono e vi elaborano ‘immateriali’ analoghi (sebbene in generale più complessi) a quelli prospettati e scoperti in altri campi»17. Ad esempio, si può leggere la corteccia cerebrale umana come un campo elettronico…
“Les Immatériaux,” Centre Pompidou, Paris, 1985.
Il protagonismo dell’immateriale consiste, dunque, nella possibilità di fare testo a sé, di fare senso per proprio conto. Ed è così che è possibile arrivare a comprendere le tesi di Mario Costa quando ha introdotto il concetto di “sublime tecnologico” come nuova dimensione estetica.
Come scriveva Costa, «le nuove tecnologie non sono un linguaggio, sono un essere che eccede ogni paesaggio interiore del soggetto e instaura una nuova situazione materiale».
Puntando sulla immaterialità del loro funzionamento, gli oggetti hanno accresciuto il loro potere, mentre quegli aspetti relazionali detti, sono diventati sempre più estetici ed estetizzanti: premere un tasto, introdurre un comando vocale, più in generale attivare un qualsiasi dispositivo elettronico. In fondo l’elettronica, priva di qualsiasi valenza estetica (le macchine ne possedevano invece una) costruisce attorno a sé un mondo di funzioni che vanno dritte all’utenza, sublimando sia il valore d’uso che lo scambio di relazioni, così da introdurre alla “dimensione estetica del miracolo”, parafrasando Jean Nouvel e le sue considerazioni sull’influenza delle nuove tecnologie elettroniche nel quotidiano.
Una unione che rimanda ancora all’“oggetticale” detto, perché prende spazio, prende tempo, in sintesi diviene sempre più protagonista.
Il nuovo tablet di 10,1 pollici di Huawei, 2016
Note
1 Michel Maffesoli, L’oggetto soggettivo. O il mondo cristallizzato, in A. Ferraro, G. Montagano (a cura di), La scena immateriale. Linguaggi elettronici e mondi virtuali, Costa & Nolan, Genova, 1994, pp. 144 -155.
4 M. Maffesoli, L’oggetto soggettivo. O il mondo cristallizzato, in A. Ferraro, G. Montagano (a cura di), La scena immateriale. Linguaggi elettronici e mondi virtuali, cit., p. 153. Il testo di Guyau a cui Maffesoli fa riferimento è costituito da una raccolta di saggi: Le problèmes de l’esthétique contemporaine, pubblicati nel 1884. Vorrei anche ricordare che di recente è stato tradotto in italiano un altro importante testo di Guyau: l’Esquisse d’une morale sans obligation ni sanction (1885), con il titolo Abbozzo per una morale senza obbligo né sanzioni, (a cura di F. Andolfi), con le annotazioni di F. Nietzsche, Diabasis, Reggio Emilia, 2009.
7 Michel Maffesoli, L’oggetto soggettivo. O il mondo cristallizzato, in: A. Ferraro, G. Montagano (a cura di), La scena immateriale. Linguaggi elettronici e mondi virtuali, cit., p. 151.
8 Cfr. S. Curti, L. F. Clemente (a cura di), Michel Maffessoli. Reliance. Itinerari tra modernità e postmodernità, Mimesis Edizioni, Milano, 2007, p. 120.
9 Mi preme tuttavia sottolineare come oggi il capitale si auto disintegri anche per altre vie, quelle inerenti la sua stessa logica interna: quei giochi finanziari azzardati, quel volere proprio forzare la mano del ludico e dell’evanescente tanto da fare andare i fumo interi sistemi economici, come dimostrano le vicende americane di qualche anno fa.
10 Colloquio con Michel Maffessoli di Vincenzo Susca, Questa crisi è una festa, in «L’espresso», 2 aprile 2009, p. 113.
11 Su questi temi, mi si permetta il rimando a P. Mello, Design Contemporaneo. Mutazioni, oggetti, ambienti, architetture, Electa, Milano, 2008, pp. 185-187. E al testo: E. Manzini, F. Jégou, “Communautés créatrices”: le design pour le développement durable, à l’époque des réseaux, in DDay. Les design aujourd’hui, catalogo della mostra (Parigi, Centre Gorge Pompidou, 29 giugno – 17 ottobre 2005), Editions du Centre Pompidou, Paris, 2005.
13 Ibidem, pp. 156-159. L’intervista è attualmente in Internet in «Journal. Architettura di Pietra – Material Design», 7 Aprile 2009, al seguente indirizzo: http://www.architetturadipietra.it/wp/?p=2418.