«L’idea di comunicazione è profondamente ambigua, oscilla fra lo scambio di informazione e l’azione simbolica sull’altro, fra il dialogo e la manipolazione, fra la riconferma di valori condivisi e la seduzione […] In ogni caso la comunicazione è un fare problematico, che lascia difficilmente spazio alla parità e alla reciprocità degli uomini e si presta sempre almeno al sospetto dell’autoritarismo e della manipolazione».
Ugo Volli, Introduzione a Il libro della comunicazione, 1994.
Onde non ridursi nell’ambito della pura – per quanto solerte, fine e intelligente, talora – descrizione, utile principio sì d’ogni analisi storica (condizione sine qua non per intraprender poi una inderogabile critica del testo, filologica, filosofica, finalizzata) ma non bastevole per se stessa ad efficaci scavi nella materia dei corpi disciplinari, ove s’avrebbe da incidere con bisturi spesso dolorosi; soprattutto, per non costringere il lettore a sopportare quella sin troppo diffusa mala genìa di panegirici encomiastici dei “prodotti” che inchiostrano la carta e null’altro, come accade in tanta letteratura eufemistica, spacciataci da giornali, riviste, periodici e ogni specie di pubblicazioni, specializzate (parrebbero) nel dar voce a chi non sa tacere, pur non avendo nulla da dire; nell’affrontare, insomma, un ragionamento, anche provocatoriamente sommario ed appena tratteggiato, sulle attività e le vicende che sono alla base del conformarsi degli artefatti umani, cioè degli oggetti materiali e immateriali, prestazionali e comunicativi (nelle varie gradualità di correlata interazione che li individuano singolarmente, non essendo mai, né l’uno né l’altro, poli attualmente disgiunti), che definiscono e conformano l’ambiente antropico, sarebbe opportuno – a mio opinabile avviso – che la “critica” impostasse il proprio ragionamento e le conseguenti argomentazioni nella rete sia di sistemiche correlate complessità socio-culturali e economico-produttive sia di occasionali casualità individuali, sia di circostanziali trasformazioni sia di areali contingenze che tali fenomeni di disegno industriale inviluppano suggellano demarcano, suggerendone gli intrecci, le ramificazioni, le intersezioni, le connessioni, gli scambi, le pluralità di piani reciprocamente interferenti ma non perciò obbligatamente ibridantisi. Preferirei, infatti, che degli artefatti e dei loro artefici, degli artifizi e degli arti, delle singolari imprese e delle plurali industriosità che li condizionano e li consentono, si tentasse e provasse, con tutti i rischi che ciò comporta, l’ipotesi pregiudiziale di scrutarne la complicanza intrinseca e assieme la strutturale unità soggiacente, niente affatto riducibile in toto a (né risolvibile entro) compartimentati saperi specializzati e specialistici – profondi, selon moi, solo se maniacalmente specifici tanto quanto aperti al confronto sereno d’impronta olistica –, e si rinunciasse ad affidarsi esclusivamente a disgiunte ragioni estetiche o a banali poetiche individuali, a vieti economicismi meccanici o al comodo riparo dell’azione di un qualche misterioso genius loci e via discorrendo e separando in bricioline insipide il gusto e la forma unica di un solo, unico pane: il grado di articolazione tra comunicazione e prestazione dei singoli artefatti. È quanto, fuor di metafora, si può meglio esprimere (e anche, per chiarezza di scienza, porre all’egida di una palese dichiarazione di parte, sottoscritta in pieno da chi scrive) con una concisa citazione di Roland Barthes, ove egli ragiona a proposito di apparentemente lontani ma sostanzialmente prossimi problemi (le scritture), concludendo che: “c’è una filosofia della Storia: cioè che la Storia è una e unica”.
Arte preistorica, Gua Tewet, Borneo.
Questo lungo, mi si perdoni se faticoso e piuttosto ansante giro di frasi, per significare che per occuparsi di storia (ossia del passato; del presente; e del futuro, in cui “entriamo a marcia indietro”, come scriveva un altro grande francese) degli artefatti c’è bisogno di un’ottica critica almeno bifocale, anzi meglio: graduatamente continua. Da una parte, a correggere il rischio di una vista ipermetrope, una lente grandangolare e anche, per taluni aspetti, un’ottica telescopica, sulle mentalità, le committenze e le circostanze (nel senso dell’etimo); dall’altra, ad alleviare la fatica di una visione ravvicinata, una protesi da presbiti, anzi quasi interna, endoscopica e non di rado microscopica, sulle materialità concrete delle innovazioni (ove e se ci sono), tanto quanto sui dispositivi e i congegni ideali, occasionati dalle esperienze di progettazione commesse dagli industriali, dalle imprese, dalle istituzioni e quant’altri. In questa ipotesi, gli “artefatti di disegno industriale”, nella loro significativa varietà (assai meno casuale di quanto possa apparire, tanto son affamiliati) andrebbero soppesati, confrontati e messi a fuoco nel panorama del trascorrere di geografie storiche e di topografie cronologiche, ogni volta del tutto peculiari. Purtroppo, ciò accade assai di rado; eppure, basterebbe soltanto un po’ più di curiosità da parte degli addetti ai lavori, nonché maggiore impegno in chi avrebbe il compito di sapere e di informare, osservando rilevando acquisendo sceverando notizie e fatti. Ergo, molto resta da fare, sul piano sia dell’analisi, documentazione e studio, sia sul versante della comunicazione e ricezione comune del disegno industriale; educazione, insomma.
Se poi i suoi oggetti (evitiamo di chiamarli “prodotti”?) ossia gli artefatti siano belli o brutti, formulando la domanda in termini tradizionali, poco ci cale: non è affatto questo il problema. Almeno, non il mio e di chi ha l’ambizione di occuparsi senza pregiudizi d’arte, delle arti e degli arti: la maggior parte degli “oggetti di disegno industriale”, fors’anzi tutti gli artefatti umani, null’altro sono infatti che protesi, estrinsecazioni, protrusioni, oggettualizzazioni e oggettivazioni artefatte delle prestazioni del corpo. Il bello e il brutto restino materia e affare di chi (avendone il tempo e le capacità) si diletta di estetica e la crede una disciplina storicamente consolidata (ma non ha più o meno due secoli and a half? oserei dire pochi, a fronte dell’umana industria, “disciplina” che spazia – ad esser risparmiosi forte – per almeno 40 migliaia d’anni). Comunque sia, credo che “potrà comprendere appieno l’arte – come ben spiegava Konrad Fiedler, già nel secolo passato (affinando altrui filosofiche idee di più antica data), in uno dei suoi Aphorismen, il 36 – solo chi non le imporrà una finalità estetica né simbolica, perché essa è assai più che un oggetto di eccitazione estetica e, più che illustrazione, è linguaggio al servizio della conoscenza”.
Sergio Polano
Il presente saggio è introduzione al volume di Lab MD Material Design Artefatti comunicativi. Tra ricerca e didattica, (a cura di Alfonso Acocella), Media MD, 2013, pp. 144.
Sempre sulla rivista digitale MD Material Design Post-it, verrà ri-editato l'intero volume in forma progressiva nel corso delle prossime settimane.
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